Haiti, le responsabilità di un mondo assente


La redazione


L’isola è stata crocevia delle scelte della politica. La tumultuosa storia della repubblica di Haiti, con oltre 30 golpe, decine di dittature e una perenne instabilità da quando dichiarò la sua indipendenza dalla Francia.


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Haiti, le responsabilità di un mondo assente

ROMA – Il terremoto che ha sconvolto Haiti è una delle peggiori catastrofi naturali mai registrate in America latina e nei Caraibi nell'ultimo decennio. Un luogo dove vive da sempre un popolo sofferente e pochi danarosi e potenti uomini che in questo inferno  hanno una fetta enorme di responsabilità. Haiti che con i suoi circa 10 milioni di abitanti, composta per il 95 percento da neri e per il 5 per cento da mulatti e bianchi, è il Paese più povero e arretrato dell'intero continente americano.

Questo nonostante le cospicue esportazioni di zucchero, caffè, banane e mango. Una realtà che si spiega con il fatto che l'economia del Paese è controllata da pochi. L'isola caraibica finora era abituata alle tragedie della storia e degli uomini, ma non a quelle naturali. Un'isola dove da sempre i Tonton Macoutes, i pretoriani dei tanti dittatori che si sono susseguiti negli anni, hanno portato morte e distruzione per far mantenere il controllo del potere ai loro padroni.

La tumultuosa storia della repubblica di Haiti, con oltre 30 golpe, decine di dittature e da una perenne instabilità, ha contrassegnato i sui 206 anni di vita, da quando dichiarò la sua indipendenza dalla Francia.

Nel 1804 infatti, le truppe francesi si arresero alle forze di Jean Jacques Dessalines, leader della prima rivolta di schiavi riuscita nel mondo moderno. Nel 1806 Dessalines venne assassinato ed iniziò una lunga lotta per il potere. Il Paese venne guidato da una serie di presidenti, la maggioranza dei quali rimase in carica solo per un breve periodo. Tutti i governanti che si succedettero nel corso degli anni non hanno fatto altro che far sprofondare il Paese sempre di più in un caos irreversibile. Con le prime elezioni a suffragio universale, presumibilmente manipolate dall'esercito nel 1957, giunse al potere Francois Duvalier soprannominato Papà Doc, che nel 1964 si dichiarò presidente a vita. Duvalier governò il Paese con il pugno di ferro per 29 anni. Decine di migliaia di persone furono uccise sotto il suo regno e quello del figlio Jean-Claude Duvalier detto Baby Doc. Il giovane neo-presidente succeduto al padre, venne deposto nel 1986 dopo una serie di rivolte popolari contro il governo. La fine della dittatura Duvalier aprì la strada a un nuovo periodo di agitazioni e instabilità politica che dura tuttora.

Con una breve parentesi solo nel 1991 con Jean Bertrand Aristide detto Titide, che fu di fatto il primo presidente haitiano ad essere eletto democraticamente. Un sogno durato poco. Aristide venne deposto poco dopo da un colpo di stato a cui seguirono 3 anni segnati dalla brutale repressione della giunta militare al potere nell'isola. Solo 3 anni dopo, grazie all'intervento militare americano, Aristide ritornò al potere nel Paese.

Le elezioni indette successivamente portarono alla presidenza il premier Renè Preval, il quale fu il primo presidente a portare a compimento il suo mandato senza interruzione e, soprattutto, il primo a lasciare di sua volontà l'incarico a fine mandato. Aristide poi, venne rieletto presidente nel 2001, ma 3 anni dopo venne deposto da un'insurrezione popolare guidata da militari ribelli e fuggì all'Estero. Fatto questo che costrinse di nuovo gli USA ad intervenire militarmente nell'isola per riportare l'ordine e venne nominato Boniface Alexandre, giudice della Corte Suprema, come presidente di un governo di transizione nazionale. Però la rivolta popolare non si placò fino alle elezioni presidenziali tenutesi il 7 febbraio del 2006 quando, seppure tra proteste ed accuse di broglio da parte dei suoi avversari, venne rieletto alla guida del Paese l'attuale capo dello stato, Renè Preval.

Nel frattempo nel giugno del 2004 arrivava sull'isola una missione internazionale dell'ONU istituita con la risoluzione 1542 per la stabilizzazione di Haiti, la Minustah. Il suo mandato era quello di aiutare il governo di transizione nazionale a mantenere l'ordine e la legge nel Paese, e garantire una transizione democratica e libere elezioni. La missione succedeva ad una Forza multinazionale che era stata autorizzata sempre dal Consiglio di sicurezza nel febbraio dello stesso anno. A causa della drammatica e agitata situazione politica di Haiti, a partire dai primi anni novanta, le Nazioni Unite si sono più volte viste costrette ad intervenire nel Paese. Presente sull'isola ancora oggi, la Minustah, è ora impegnata a proteggere il personale delle Nazioni Unite che si adopera in progetti umanitari sull'isola.
 
Lo scorso mese di ottobre il CdS ha infatti prorogato di un altro anno la missione, chiedendo ai caschi blu di continuare anche ad aiutare la polizia del Paese a migliorare le condizioni di sicurezza. La missione è composta da una forza militare e civile proveniente da tutta l'America Latina. Sono almeno 9mila uomini di cui 7mila militari e 2mila poliziotti posti sotto il comando del Brasile. Il suo quartier generale si trovava nella capitale haitiana, Port-au-Prince ed è stato distrutto dal terremoto. Per ora, a causa del violento sisma che ha colpito il Paese, sono almeno 36 i morti e 56 i feriti tra i suoi membri. Tra questi anche il comandante della missione, il generale tunisino Hedi Annabi che ha perso la vita nel crollo della palazzina di 6 piani, un tempo l'hotel Christopher, ed ora adibita a sede della Minustah. Con lui potrebbero essere morti altre 200 persone tra cui il suo vice, il canadese Kim Bolduc, tutti rimasti sepolti sotto le macerie del QG. Nel frattempo, il comando della missione è stato affidato provvisoriamente al generale cileno, Ricardo Toro, in attesa dell'arrivo sull'isola di Edmond Mulet che era stato il predecessore di Annabi ad Haiti.

di Ferdinando Pelliccia

Fonte: http://www.dazebao.org

15 gennaio 2010

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Haiti: la povertà non è una calamità della natura

 L’isola degli ultimi, titola questa mattina Sergio Romano sul Corriere. E in gran parte dei giornali anglofoni si descrive Haiti come “il Paese più povero dell’emisfero occidentale”.

Le immagini della catastrofe umana di Port-au-Prince sconvolgono. Ancora una volta la natura si accanisce contro chi è già nelle peggiori condizioni di vita. Ma sarebbe miope buonismo non cogliere l’occasione per sottolineare che la povertà di Haiti non è una calamità della natura.

In gran parte, la devastazione che ha colpito la popolazione è frutto di azioni e politiche umane … o forse disumane.

Secondo gli studi più recenti il 75% degli haitiani vive con meno di 2 dollari al giorno, e di questi la metà con meno di 1 dollaro. Decenni, ormai, di politiche neoliberiste e di aggiustamenti strutturali hanno privato i governi locali del potere di investire nel proprio popolo, di promuovere emancipazione, di regolare l’economia, di favorire la partecipazione degli uomini e delle donne di Haiti al futuro del paese. Di realizzare il programma, realistico e minimale del Presidente Aristide: “sollevare il mio popolo dalla miseria più abietta per  portarlo almeno ad un povertà dignitosa.”

Dalla fine degli anni ’70, spietate politiche agricole improntate al dogmi neoliberisti che spianavano la strada agli interessi delle potenze economiche multinazionali hanno spopolato le campagne, costringendo numeri sempre crescenti di persone a migrare verso la città alla ricerca di qualche espediente per garantirsi la sopravvivenza. Non esistono purtroppo statistiche affidabili, ma sono centinaia di migliaia di residenti di Port-au-Prince che sopravvivono in baracche e strutture precarie, costruite su pendici rese franose dalla deforestazione. Non c’è niente di “accidentale” né di naturale nelle bidonville delle megalopoli che nascono negli Stati le cui economie tradizionali sono state divelte da inique politiche economiche internazionali.

Dal 2004 è la missione ONU (Minustah) che effettivamente governa. Si tratta di una missione costosa che è essenzialmente di pacificazione e militare. Ma, ogni volta che i funzionari civili della missione hanno chiesto agli Stati che li finanziano di stanziare fondi per progetti di riduzione della povertà, oppure per promuovere una riforma agraria o progetti di partecipazione della società civile, i Paesi donatori hanno sempre risposto che non ci sono i fondi. Un modello di aiuti internazionali malato: nemmeno questo è imputabile al caso o alla natura.

E’ sacrosanto fare tutto il possibile per aiutare i sopravvissuti del terremoto di Haiti. Nell’immediato, ciò significa squadre di soccorso, ospedali da campo, invio di viveri e materiali per fornire riparo. Ma se davvero vogliamo trasformare la nostra angoscia di fronte alla tragedia in proposta concreta, sarà bene che cominiciamo subito, da oggi, a riflettere sulle responsabilità di quella Comunità internazionale che oggi si mobilita a inviare aiuti di emergenza. Sono responsabilità anche nostre.

di Lisa Clark

14 gennaio 2010

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