Le speranze del sindaco di Hebron per la pace in Palestina
Marco Bobbio e Diego Novelli
Quattrocento persone, in maggioranza giovani e in maggioranza ragazze. La prima tappa del nostro viaggio in Palestina e Israele per la Tavola della Pace, è ad Hebron, dove incontriamo il sindaco Khaled Osaily, un ex uomo d’affari che ha scelto di dedicarsi al servizio dei suoi concittadini.
Hebron è la più grande città della Cisgiordania con 250 mila abitanti, che sono occupati militarmente dal 1967.
«I miei concittadini – ci dice Osaily – chiedono solo di poter vivere in condizioni di umanità, con gli stessi diritti e doveri di tutti i cittadini del pianete. Abbiamo già sofferto molto e vogliamo trovare comunque una soluzione di pace. La nostra città è una delle più antiche del mondo, con 6.000 anni di storia e oggi si trova divisa in due settori, di cui uno totalmente sotto controllo dell'esercito israeliano. La città vecchia è circondata da 110 posti di blocco, mentre nella provincia sono 250. Tutto questo impedisce ogni possibilità di sviluppo economico, culturale e commerciale».
Qual è la situazione dei coloni che si sono insediati qui ad Hebron?
«Si tratta di 400 ebrei americani, reduci dalla guerra in Vietnam, e sono protetti da oltre 1000 soldati israeliani».
Ma quand'è che si è creata la grave situazione che vivete oggi?
«Nel 1994, un medico israeliano entrava nella nostra antica moschea e con un fucile mitragliatore uccideva 29 palestinesi. La moschea a quel punto è stata chiusa, 1800 negozi che si trovano in quella zona hanno dovuto cessare ogni attività e 1000 abitanti, secondo i dati forniti dall'organizzazione israeliana per i diritti umani, sono stati deportati. Tutta la zona della moschea è interdetta ai palestinesi ed io sindaco non posso attraversare la mia città: per percorrere 500 metri di strada devo fare otto chilometri».
Ma come si muovono i palestinesi nella città?
«Quelli rimasti passano sopra i tetti, mentre i bambini dei coloni possono addirittura usare le strade per giocare a calcio. Oltre a questo, i coloni scaricano le loro immondizie sulle poche case ancora occupate dai palestinesi: hanno anche lanciato bottiglie contenti sostanze tossiche».
Che cosa si può fare per costruire un futuro migliore?
«Ci sono le condizioni per una convivenza civile con gli israeliani: noi puntiamo molto sui giovani, sull'istruzione e sulla formazione professionale. Abbiamo dei ragazzi che sono stati addestrati in Italia per fare gli orafi, i medici e gli ingegneri: vogliamo portare la normalità nelle nostre città, abbiamo appena inaugurato il nuovo stadio offerto dalla Uefa».
Che cosa pensa della nuova amministrazione americana?
«Otto anni di Bush ci avevano fatto perdere ogni speranza, oggi soprattutto con i discorsi del Cairo e di Istanbul di Obama una nuova luce si è aperta, dopo 42 anni di occupazione e di frustrazioni. Ora speriamo e aspettiamo che Obama passi dalle parole ai fatti».
Qual è la condizione delle donne nella sua città?
«Il 52% della popolazione è femminile, il 65% degli studenti della nostra università sono donne, il 40% della forza lavoro è femminile, anche nelle istituzioni le donne sono presenti: ad esempio, nella mia giunta su quindici membri, sei sono donne. E abbiamo anche qui in Cisgiordania due donne sindaci».
Allora lei è fiducioso che la situazione oggi drammatica possa mutare?
«Spero molto nell'Europa e in tutte le comunità del mondo che seguono con attenzione la Palestina. Ripeto, sono un uomo d'affari, potrei vivere all'estero ma questa è la mia terra».
Però ci sono frizioni politiche, rotture tra Gaza e la Cisgiordania. Si può ricomporre?
«Direi di sì, anche perché non esistono alternative ad una soluzione di pace».