Arance amare a Samaria


Paola Caridi - invisiblearabs.com


Viaggio nei confini di Terrasanta, come gli angeli di Wenders. "Da Gerusalemme a Sebastya, e ritorno, la sindrome dei confini è, però, ineludibile. Terra che diventa zona, definita da fredde lettere dell’alfabetico".


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Arance amare a Samaria

Anche ad aguzzare lo sguardo, Gerusalemme da Sebastya non si scorge. Nelle giornate terse si intuisce semmai il mare. Il Mediterraneo dei fenici, per esempio, che arrivarono sin sulla collina di Sebastya, dieci chilometri a nord di Nablus. Lo si sa dalle mura irregolari che gli archeologi ritrovarono, negli anni Trenta. Accanto al foro romano, accanto alla chiesa bizantina dove la leggenda (ma solo quella) pensa che Giovanni Battista sia stato decapitato. A poche centinaia di metri dalla cattedrale del paese di Sebastya dove, invece, c’è la vera tomba del profeta.
La mattina, partita da Gerusalemme, avevo pensato di sfuggire per qualche ora alla sindrome dei confini. Rifugiarmi nei tempi antichi. Respirare. E ricordare anche un vecchio amico che se n’è andato troppo presto, fra’ Michele Piccirillo. Forse l’archeologo più famoso di Terrasanta. E anche l’uomo che era riuscito in tre anni, tra 2005 e 2008, a trasformare di nuovo Sebastya nel tesoro che è. Tra il foro romano, le tracce della Samaria biblica, i crociati, la vera tomba di Giovanni Battista. Proprio dentro le mura della cattedrale che contengono la moschea, sotto l’albero di arance amare con cui si fa una marmellata a dir poco evocativa. Tra pietre che fino al sedicesimo secolo hanno ospitato cristiani e musulmani che pregavano l’uno accanto all’altro.
Giù in fondo alla collina, un uliveto nasconde l’antico stadio. Non ci vuole molto a capirlo. La forma, il rialzo delle gradinate nascoste dall’erba secca. E poi quelle colonne ingrigite che affiorano dal terreno. Come chiodi. Dall’altra lato della collina, i chiodi ingrigiti segnano invece il colonnato romano, con i negotii ai lati. Se si potesse scavare, le colonne si ergerebbero, maestose. Anche le antiche vestigia – e perché dovrebbero? – non sono immuni dai conflitti. Accanto al foro romano, sopra il villaggio contadino di Sebastya, in Cisgiordania, c’è un campetto di calcio, delimitato da una recinzione di metallo alta appena una trentina di centimetri. Un campetto di calcio che nasconde sicuramente molto, per gli archeologi. Per i cartografi degli accordi Oslo ha invece un altro nome: è zona C. Un’area che non è sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese, bensì sotto il controllo dell’autorità militare israeliana. Morale: il campetto di calcio resta lì dov’è, con i suoi probabili tesori segnalati, come Pollicino, dalle innumerevoli tesserine di mosaico sparse per il terreno. Frontiere, ancora.
Da Gerusalemme a Sebastya, e ritorno, la sindrome dei confini è, però, ineludibile. Terra che diventa “zona”, definita da fredde lettere dell’alfabetico. Mappe diplomatiche che si sovrappongono a cartografie da archeologi. E poi strade, barriere, muri. Viaggiare – da queste parti – vuol dire trasformarsi in funamboli, percorrere il proprio filo, il proprio cavo teso tra le frontiere visibilissime. Oppure trasparenti e invalicabili come il cristallo. E, infine, trasformare il proprio corpo di viaggiatore in una zona franca. Un privilegio implicito che consente di osservare le città come gli angeli di Wim Wenders guardavano Berlino, passando con un leggero fruscio d’ali accanto ai suoi veri abitanti. A tutti i suoi abitanti, al di qua e al di là.
Un battito d’ali, e dalla Sebastya delle colonne affioranti, delle marmellate dalle citazioni evangeliche, si arriva a Gerusalemme, sorvolando scaramucce, colonie, recinzioni. Si torna in appena un’ora e mezza in un città che dovrebbe essere santa, e che a un occhio “altro” appare come la trama slabbrata di un tappeto, fatto di fili invisibili che si tendono. E segnano il paesaggio centimetro dopo centimetro. Sono i tenui fili di nylon dei confini che solo gli abitanti – tutti gli abitanti – conoscono. E che formano il tessuto di un luogo in cui ogni sasso, ogni centimetro quadrato, ogni albero ha un marchio.
E’ banale dire che Gerusalemme ricordi la Berlino del Muro e della separatezza. I confini fisici, quelli dei cuori, gli altri della politica hanno fondamenta forti. Tanto forti da rendere la geografia urbana una rete fitta di percorsi paralleli che si lambiscono, talvolta si toccano, si sfiorano, si incontrano. Città nella città, accanto alla città. Gerusalemme israeliana, Gerusalemme palestinese. Ovest ed Est. Non Occupata. Occupata. Nuova, antica. Segnata e separata dalle fedi. Riunita dalle cassette di frutta dei mercati.
Neanche i posti che sono neutrali sono staccati dai confini. Semmai li intromettano, trasformandosi in un luogo dove non si smettono le proprie uniformi, ma si indossano con non-chalance uno accanto all’altro. Magari attorno a uno stesso tavolino, mentre si sorseggia il migliore cocktail Martini del Medio Oriente calpestando le orme di Lawrence d’Arabia e, più prosaicamente, di Richard Gere. Nel giardino dell’American Colony, ancora il più glamour della città, il più neutrale. Non per questo lontano dalla città. A est. A venti metri dall’Orient House. A cinquanta dalla terra di nessuno pre-1967. A 150 metri da Mea Shearim, il quartiere ebraico ultraortodosso che ancora – e soprattutto in queste settimane – afferma di essere un mondo a parte. Circondati, dovunque, dalle bandiere che ognuno issa, per segnare ciò che definisce suo.

Fonte: Lettera22, Domenicale del Sole24ore, blog di Paola Caridi invisiblearabs

3 agosto 2009

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento