La più grave crisi umanitaria in Africa
AGI Mondo ONG
Più di tre milioni di somali, con un incremento dell’80 per cento rispetto al 2007, patiscono le conseguenze di violenze e insicurezza, della ciclica siccità che produce carestie.
Così è stata definita dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, già un anno fa. Ora lo confermano tutte le organizzazioni umanitarie che lavorano in Somalia. Più di tre milioni di somali, con un incremento dell’80 per cento rispetto al 2007, patiscono oggi le conseguenze del conflitto, delle violenze, dell’insicurezza permanente, della ciclica e perdurante siccità che produce carestie e decima il bestiame. Gli scontri armati hanno avuto il loro epicentro all’inizio del 2007 a Mogadiscio -da dove è fuggita quasi la metà della popolazione – e dalla seconda metà del 2008 hanno interessato tutta l’area centro-meridionale. Gli sfollati dalla capitale hanno cercato sicurezza e rifugio lungo le vie di comunicazione che conducono ad Afgoye o hanno fatto ritorno nelle regioni di origine, alcune già colpite dalla siccità. Mentre c’era chi stava ormai facendo ritorno a Mogadiscio, animato dalla speranza che il nuovo governo di unità nazionale potesse garantire un periodo di stabilità, agli inizi di maggio gli scontri sono ripresi massicciamente e in poche settimane vi sono stati 70mila nuovi profughi. Ma per i più poveri non c’è via di scampo all’insicurezza, alla fame, alla mancanza d’acqua e di assistenza medica. Un bambino su sei, al di sotto di cinque anni d’età, è malnutrito e a rischio sopravvivenza, soprattutto nel centro-sud del Paese. Non più del 15 per cento della popolazione ha accesso all'assistenza medica di base. Circa mezzo milione di persone ha cercato rifugio in altri Paesi. I campi di rifugio in Kenya e nello Yemen, nonostante le difficoltà alla frontiera e le migliaia di morti e dispersi nelle acque del Golfo di Aden, sono cresciuti di mese in mese. Questa crisi non trova spazio sui media; non vi sono i cronisti televisivi e i testimonial come nel 1991 e 1992, ma la situazione non è lontana dalla tragedia di quegli anni.
L'attenzione e l'azione della comunità internazionale sono drammaticamente insufficienti, come hanno denunciato più volte le ong somale e internazionali. Molte sono le responsabilità degli stessi somali: dalle intimidazioni, sopraffazioni e violenze di polizia e di altri soggetti istituzionali a quelle di banditi pronti ad arricchirsi sulla pelle dei più deboli. Anche accedere alle popolazioni in difficoltà comporta spesso sottostare a bande di taglieggiatori e ha molti del personale umanitario è costata la vita.
Troppo presto e troppo in fretta è stato decretato di lasciare la Somalia. Dal 1990 poche organizzazioni internazionali hanno mantenuto sedi in territorio somalo, preferendo la più sicura e comoda postazione di Nairobi, cui tutti sono stati costretti a fare riferimento. Fino al primo maggio 2008 quando con l’uccisione del capo shabab Aden Hashi Ayro è iniziata l’offensiva contro tutto ciò che poteva in qualche modo rappresentare l’Occidente, molte occasioni sono state sprecate. Non è la stessa cosa aiutare un Paese a 2000 km di distanza o risiedervi, essere vicini alla popolazione e alle istituzioni. Ma è stata data priorità a Nairobi, alle esigenze della sua assortita comunità internazionale così solerte in riunioni e dichiarazioni d’intenti. E’ stata tollerata la “gestione a distanza” dei progetti, fino a far sentire a disagio le organizzazioni che avevano invece scelto di rimanere in Somalia.
Non vi è dubbio che si è lavorato “per”. Non sempre è stata data priorità al lavoro “con”, vale a dire a quel valore aggiunto che avrebbe potuto contribuire a una diversa evoluzione delle cose. Vanno lodate quelle agenzie umanitarie e ong internazionali che, quando è stato possibile, hanno voluto restare coerenti con il loro mandato e che, fornendo gli aiuti, hanno anche mostrato la massima vicinanza alla popolazione e alle istituzioni somale e la massima condivisione delle difficoltà. Vanno lodate quelle ong e realtà somale -anch’esse spesso a rischio- che hanno saputo dimostrare dedizione, impegno, vicinanza a chi soffre.
Da tempo influisce sulla Somalia la donors fatigue che ha comportato una diminuzione degli aiuti internazionali. Fortunatamente i grandi donatori, tra cui l’Unione europea, stanno mantenendo e rinnovando gli impegni assunti; ma la “fatica”, frutto della sfiducia e delle difficoltà oggettive, è reale e rischia di peggiorare, anche perché parte degli impegni internazionali sono dirottati sul problema della pirateria, perché sentito come più immediato, giacché ha effetti sugli interessi commerciali dei singoli Stati. Invece non lo si può separare da tutto il resto e in particolare dalla mancanza di alternative per migliaia di giovani somali e per le comunità delle aree del nordest gravemente colpite dalla siccità.
Ma anche la pirateria è frutto di occasioni mancate, di sottovalutazioni, di superficialità nell’esaminare i fenomeni quando iniziano a prodursi. Inascoltata rimase tre anni fa la prima richiesta di aiuto dell’allora primo ministro Ali Ghedi e la situazione oggi è diventata molto più complessa per le connessioni e le ramificazioni prodottesi e richiede impegni gravosi e costi di gran lunga superiori rispetto a quanto sarebbe stato necessario con una risposta tempestiva.
Sarebbe un grave errore non dare risposte efficaci al diritto alla sopravvivenza: cibo, acqua, salute ma anche istruzione, formazione professionale, aiuti all’agricoltura, all’allevamento del bestiame, al microcredito, alle attività produttive. Sarebbe un secondo fallimento della “comunità internazionale” e la Somalia sarebbe lasciata al migliore offerente, con le conseguenze che si possono immaginare.
Fonte: ongagimondo.it