Aspettando Obama


Zvi Shuldiner


Il presidente Obama è arrivato ieri in Arabia Saudita dove ha iniziato un’odissea politica che avrà il suo clou tanto atteso oggi con il discorso che pronuncerà all’Università del Cairo.


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Aspettando Obama

Il presidente Obama è arrivato ieri in Arabia Saudita dove ha iniziato un’odissea politica che avrà il suo clou tanto atteso oggi con il discorso che pronuncerà all’Università del Cairo. Mentre nel mondo arabo non pochi si aspettano con ansia un cambio fondamentale nella politica estera Usa, in Israele cresce la tensione e c’è chi parla di un “presidente anti-israeliano”.
Dagli ambienti vicini a Benjamin Netanyahu si fanno uscire voci secondo cui il premier israeliano avrebbe detto ai suoi intimi che gli americani vogliono far cadere il suo governo. A Washington il presidente degli Stati Uniti ha dedicato 12 minuti a un incontro non programmato con il ministro della difesa israeliano Ehud Barak, arrivato per una riunione di lavoro con il generale Jim Jones, consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione. Barak, truccato per l’occasione da moderato, è andato nella capitale Usa per annunciare che sta rimuovendo gli insediamenti illegali e allo stesso tempo spiegare – al pari di Netanyahu – che bisogna portare avanti la costruzione di nuove colonie che rispondono alla necessità della “crescita naturale” della popolazione israeliana.
Questo è un argomento assai curioso: gli israeliani e molti americani ed europei credono ancora a questa favoletta propagandistica. Ogni volta che si sloggiano 10 o 20 giovani ultrà da un “avamposto illegale”, parte lo show televisivo per mostrare al mondo gli scontri fra i giovani fondamentalisti ebrei e le “forze dell’ordine”. Poche ore dopo comincia la ricostruzione, a volte con fondi pubblici del governo regionale. Questo trucco sembra “legalizzare” il resto degli insediamenti che in realtà sono tutti illegali dal punto di vista del diritto internazionale. Molti di essi s’insediano su terre private rubate alla luce del giorno ai palestinesi.
La “crescita naturale” acquisisce caratteri quasi magici. Ogni neonato necessita di una nuova casa, di una scuola, di una sinagoga. Ai tempi degli accordi di Oslo, nel ’93, nei territori occupati si trovavano non più di 100 mila coloni israeliani. Oggi sono più di 300 mila. O un tasso di fertilità straordinario o le magiche menzogne dell’occupazione.
Netanyahu si trova alla testa di una coalizione di destra. Questo vuol dire che in essa sono presenti elementi razzisti, annessionistici, fondamentalisti e anti-democratici. Le iniziative razziste – che fanno ricordare regimi terribili di cui furono vittime gli stessi ebrei – si succedono senza soluzione di continuità e il fascismo alza orgogliosamente la testa nella sua peculiare versione israeliana.
Netanyahu sa che se sospende i lavori di ampliamento degli insediamenti nei territori occupati e pronuncia la fatidica formula dei due stati per due popoli, la sua coalizione potrebbe andare in pezzi. Comincia a rendersi conto che le sue doti retoriche e il suo buon inglese non saranno sufficienti per bloccare quello che ha l’aria di essere un cambio della linea americana.
L’ultra-destra israeliana si converte all’”anti-imperialismo” e chiama a resistere alle pressioni Usa che “potrebbero portare a un disastro” perché non capiscono “quali sono i veri interessi dell’occidente”. Si sta muovendo per mobilitare i suoi alleati negli Stati Uniti, dove però le voci d’opposizione ad Obama sono ancora molto deboli.
E i palestinesi? Barak arriva a Washington con teatrali atti di smantellamento di “avamposti illegali”. Il presidente palestinese Abu Mazen ci arriva dopo che le sue “forze di sicurezza”, addestrate e addomesticate dagli americani, hanno ammazzato tre attivisti di Hamas. I “palestinesi di Ramallah” si gettano su un filo-americanismo cieco ma dimenticano che Obama non sarà l’angelo salvatore se il movimento palestinese si presenta ai negoziati diviso e impegnato solo a liquidare Hamas. Washington e Ramallah non sembrano aver capito ancora che solo la riunificazione palestinese e una inevitabile apertura a Hamas potranno portare una vera indipendenza. Forze palestinesi che agiscano come longa manus degli americani o degli israeliani non saranno alcun prodromo della pace ma al contrario garantiscono una sicura, e tremenda, guerra interna.
Chissà che non sia per i tragici anni di Bush, segnati da guerre criminali e un imperialismo sfrenato, chissà non sia per il tocco magico di Obama, tuttavia è difficile immaginare altri discorsi che provochino un’analoga attesa.
Discorsi. E’ necessario sottolinearlo perché i cambiamenti reali nella politica Usa non sono ancora certi e concreti. E’ sicuro che su diversi punti Obama è molto diverso da Bush, ma è necessario guardare al di là di entrambi.
Il segretario di stato di Clinton, la signora Madeleine Albright, ha appena pubblicato un articolo in cui afferma che bisogna guardare con occhi diversi il problema dei rapporti con l’Islam. Però quando si riferisce all’Iraq, all’Afghanistan, all’Iran o al Medio Oriente non si capisce se questa diversità non si risolva in nulla più che un cambio di stile.
Sul Guardian di Londra, il prestigioso storico Eric Hobsbawm analizza il dilemma posto dall’attuale crisi economica e afferma che non è ancora chiaro se la sinistra sull’essenziale ha una posizione distinta rispetto allo schema dominante dell’economia di mercato. Crescita, stimoli, settore privato e altri termini sono ancora il fulcro dei discorsi pubblici e un pensiero davvero alternativo non si vede.
Hobsbawm parla di economia però è probabile che la questione degli “interessi americani”, della pace in Medio Oriente e del ruolo degli Stati Uniti richiedano dubbi simili.
Discorsi. Sì, il discorso potrebbe essere molto importante e agevolare un cambiamento di clima necessario. Però il vero interrogativo passa attraverso un cambio radicale nei parametri del conflitto. Questo significherebbe fare passi concreti per parlare con tutti i palestinesi – Hamas incluso -, sospendere qualsiasi aiuto che consenta a Israele di continuare con la sua politica coloniale nei territori occupati. Dire chiaramente che ogni colonia non è altro che un ostacolo posto deliberatamente sul processo di pace. Il discorso potrebbe essere molto importante però solo se è il preambolo di un cambio vero della vecchia politica egemonica degli Stati Uniti in Medio Oriente.

Fonte: il Manifesto

4 giugno 2009

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Islam, Obama prova a far pace
Il presidente Usa inizia a Riyadh il tour mediorientale. Oggi in Egitto l’atteso discorso ai mussulmani, mentre intensifica i pressing su Israele. Messaggio di bin Laden: semina odio

di Michelangelo Cocco

Barack Obama ha iniziato ieri il suo viaggio in Medio Oriente da Riyadh, dove è stato accolto dal più alto esponente di quella monarchia saudita che già nel 1933, un anno dopo la fondazione, assegnò a Washington lo sfruttamento di parte dei suoi immensi giacimenti di petrolio. Per il presidente degli Stati Uniti l’84enne re Abdullah resta un partner strategico: per la politica energetica (il greggio, in piena crisi economica, negli ultimi giorni è salito a 68 dollari al barile) e per i progetti di pacificazione del medio Oriente che Washington sta studiando.
Piani elaborati assieme ai regimi arabi cosiddetti «moderati», interessati anche al ridimensionamento dell’influenza iraniana nella regione. Non a caso lasciata la nazione dove sorgono i due luoghi più sacri per l’islam – la Mecca e Medina -, oggi Obama sarà al Cairo, dove pronuncerà un attesissimo discorso rivolto a quei 1,5miliardi di mussulmani oltraggiati dalla politica di scontro di civiltà promossa dalle amministrazioni Bush. Dopo oltre 800 prigionieri transitati per Guantanamo (in regime di detenzione amministrativa, senza capi d’imputazione formali, ndr), le guerre in Afghanistan, Iraq e la politica della carta bianca a Israele delle amministrazioni repubblicane guidate da George W.Bush, Obama cercherà di convincere il mondo islamico e arabo della giustezza della sua politica di «soft power».
Già il 20 gennaio scorso, nel discorso d’insediamento come 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America, Obama aveva detto «al mondo mussulmano che stiamo cercando una nuova via per andare avanti, basata su un interesse e su un rispetto reciproco». Una settimana dopo, dagli schermi della tv panaraba al Arabiya: «Il mio lavoro nei confronti del mondo mussulmano è comunicare che gli americani non sono vostri nemici». E, sull’Iran «È importante la nostra volontà di dialogo, per chiarire quali sono le nostre divergenze ma anche dove si possono trovare potenziali strade di progresso». A Tehran si era poi rivolto direttamente il 21 marzo in occasione del Newroz, il capodanno persiano, spiegando che il suo obiettivo è «perseguire legami costruttivi fra gli Stati Uniti, l’Iran, e la comunità internazionale».
Messaggi intensivi a cui ieri, dopo le minacce pronunciate il giorno precedente dal suo vice Al Zawahri, ha risposto Osama bin Laden, che da anni si fa vivo solo attraverso nastri audio dall’autenticità difficilmente verificabile. Secondo il leader di Al Qaeda il presidente americano ha piantato i semi dell’«odio e della vendetta (dei mussulmani) contro gli Stati Uniti» causando l’espulsione di «un milione di vecchi, donne e bambini» dai loro villaggi in Pakistan ed «ha seguito i passi del suo predecessore» George W. Bush. Grazie agli ordini di Zardari (il presidente pachistano) e del suo esercito – sostiene bin laden – agli abitanti della Swat è stato impedito di applicare la sharia (la legge coranica), a causa di combattimenti, bombardamenti e distruzioni che hanno portato all’espulsione di in milione di mussulmani dai loro villaggi e dalle loro case, nei quali vivevano rispettabilmente». Ma «il popolo pachistano rifiuta questa guerra ingiusta – conclude bin Laden – e Zardari si comporta così su ordine di coloro che pagano alla Casa Bianca».
E secondo quanto anticipato ieri da un’intervista dell’inqiulino della Casa Bianca al New York Times, Obama in Egitto non parlerà, solo all’islam, ma chiederà concessioni a tutte le parti in causa nel conflitto mediorientale: a Israele, invitandolo a fermare la colonizzazione ebraica della Palestina; ai palestinesi, chiedendogli di essere più costruttivi; agli stati arabi, proponendo di riconoscere pubblicamente i propri timori nei confronti dell’Iran.
Israele spera che il discorso di Obama non sarà «a spese dello Stato ebraico». Lo ha detto il ministro dei Trasporti, Israel Katz, stretto alleato del primo ministro Benjamin Netanyahu. «Il presidente americano ha il diritto di tentare una riconciliazione con il mondo musulmano per fare concorrenza ad al Qaeda o all’Iran e conquistare il suo cuore: da parte nostra dobbiamo verificare che questo non metta in pericolo i nostri interessi comuni» con gli americani, ha dichiarato alla radio militare Katz.
Ma è proprio su Israele che negli ultimi giorni il pressing si è fatto stretto al punto da far dubitare tanti analisti dell’opportunità di questa «partenza in quarta» che, in caso d’insuccesso, potrebbe mettere in crisi la diplomazia Usa. Nelle ultime ore Obama ha chiesto al governo Netanyahu di rivendicare, entro il luglio prossimo, la sua posizione sulle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati. In seguito alle ultime pressioni statunitensi, l’esecutivo di destra che guida Israele aveva messo in chiaro che vuole espandere le colonie e che è contrario alla nascita di uno stato palestinese.
Prima di partire per Riyadh, Obama si è inserito a sorpresa in un incontro, a Washington, tra il ministro della difesa israeliano Ehud Barake e il consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jim Jones. Secondo quanto riferito al quotidiano Ha’aretz da fonti ufficiali israeliane, Obama ha annunciato a Barak che intende presentare, nel luglio prossimo, un piano di pace preliminare – della durata di sei mesi – che da parte araba preveda la normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico e da quella israeliana il congelamento della colonizzazione dei Territori occupati.
Si tratterebbe di una revisione del piano di pace saudita del 2002. Ma mentre quel progetto legava la normalizzazione a concessioni ben più onerose da pare di Israele (il ritiro completo dai territori occupati nel 1967) questa versione la legherebbe al primo passo (mai compiuto) che avrebbe dovuto fare Tel Aviv, secondo la road map, il piano di pace elaborato – sempre nel 2002 – da Usa, Onu, Russia e Ue che prevedeva anzi tutto il congelamento della colonizzazione.

Fonte: Il Manifesto

4 giugno 2009

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