La liberazione della libertà


Piero Piraccini


La guerra di liberazione fu la guerra contro il fascismo condotta dagli antifascisti, i quali la vinsero per se stessi e per ridare alla nazione quella dignità che i fascisti avevano svenduto ai nazisti. Non c’è rilettura storica che possa cambiare le cose. L’editoriale di Piero Piraccini.


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La liberazione della libertà

La liberazione è un processo attraverso il quale si raggiunge la libertà. La libertà essendo il frutto non il nome dell’albero che lo produce.
La festa della liberazione è la festa di coloro che rappresentano quell’albero. La libertà è il frutto che tutti possono poi gustare. La guerra di liberazione fu la guerra contro il fascismo condotta dagli antifascisti i quali la vinsero per se stessi e per ridare alla nazione quella dignità che i fascisti avevano svenduto ai nazisti. Non c’è rilettura storica che possa cambiare le cose. Da una parte c’erano i fascisti, dall’altra c’erano gli antifascisti. Fra loro l’abisso era e resta incolmabile. Nessuna memoria può essere condivisa se più letture ne confondono il piano storico. Il revisionismo altro non è che menzogna, e vedere l’antifascismo sull’altare degli imputati, come avviene da alcuni anni in qua, la dice lunga sul declino dell’Italia, morale prima che politico.
Da piccolo seppi di un vicino di casa che, tornato dalla guerra in Jugoslavia, mostrava con fierezza una scatola in metallo che conteneva lingue di partigiani. Da piccolo si crede alle storie raccontate dai più grandi. Diventato io più grande, misi quel ricordo sullo scaffale delle esagerazioni.
Poi, più avanti, lessi un libro sull’isola di Rab, l’isola croata che aveva visto nascere lo spaccapietre S. Marino fondatore dell’omonima repubblica, il teatro dei campi di concentramento dove i militari italiani tenevano rinchiusi i serbi, militari o civili che fossero. Ante Pavelic, il fascista messo al potere in Croazia da Mussolini, fu intervistato dall’allora giornalista Curzio Malaparte il quale notò al suo fianco un cesto sanguinolento. Spiegò Pavelic: “Sono occhi strappati ai serbi, così non potranno più spararci. Ogni giorno i miei soldati me ne procurano alcuni”. Dunque il racconto sentito da piccolo non era un’esagerazione.
La guerra era passata da alcuni decenni, quando assistetti ad una scena violenta nel bar che frequentavo: un signore anziano e magro fu aggredito senza apparente motivo da uno più giovane, e scaraventato a terra. Ci fu da fare per separarli. Il più anziano badava a dire che lui non c’era, allora. Quale “allora”? Seppi che “allora”, ai tempi della Repubblica di Salò (quella dei ragazzi di Salò), l’anziano aveva ucciso un bimbo, fratello del più giovane ed, assieme ad altri, ne aveva preso a calci la testa simulando un orrido gioco.
Ecco cosa erano i fascisti e per quale mondo radicalmente ed irriducibilmente opposto si sono battuti gli antifascisti.
Fra un mese circa si torna a votare perché hanno perso coloro che tagliavano le lingue degli avversari o giocavano a calcio con le teste dei bambini. La nostra sarà la più imperfetta delle democrazie (anzi, a volte, neppure sembra tale) ma c’è. Dunque il voto può solo renderla meno imperfetta, purchè non se ne assecondi il declino.
Si vota perché il comune di Cesena e la sua provincia continuino ad essere amministrati da chi, più d’altre formazioni politiche, sono eredi positivi di quelle tragiche storie.
Si vota perchè l’Europa, nata da un gran progetto di pace, si confermi tale inventandosi nuovi modi per tornare uno strumento di pace. L’originaria Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (CECA), infatti, altro non era che la volontà di mettere in comune il carbone e l’acciaio, materie per costruire quelle armi che fino a pochi anni prima gli stati europei avevano usato gli uni contro gli altri. Se d’Europa si sente parlare non è tanto per conoscere i programmi dei partiti quanto per dibattere sulle candidature, dalle più nobili (alcune di loro hanno scritto anche recentemente sul nostro giornale) alle più inguardabili, frutti anche loro d’alberi. Marci, però. O per parlare dell’auspicata ma abortita coincidenza con la data del referendum.
Quanto ai contenuti di quest’ultimo, l’interesse è ancora quasi nullo come se non avesse alcuna importanza il peso del voto che ognuno è tenuto ad esprimere perché, tanto, a decidere saranno altri. Ed in questa rassegnazione, purtroppo c’è del vero.
Tuttavia, limitatamente a due dei tre quesiti referendari (per il terzo, il no alle pluricandidature, è scontato), questi esistono e la vittoria dei sì (intendendo, in tal modo, modificare la “porcata” di Calderoli) o la vittoria dei no (non intendendo peggiorarla) farà la sua differenza. E se Berlusconi, com’è probabile, s’impegnerà per il raggiungimento del quorum, allora la vittoria dei sì porterà l’Italia al più basso livello delle democrazie europee. Con quello che ne potrà conseguire.
Infatti il referendum, in sostanza, pone una domanda: vuoi che al partito più votato (non alla coalizione dei partiti più votati, com’è ora) sia assegnata la maggioranza assoluta dei deputati e dei senatori e che, di conseguenza, sia aumentata la soglia per rappresentare un partito? Cioè, detto in altro modo: vuoi che i partiti in Parlamento si riducano a due?
Berlusconi (Pdl) e Franceschini (PD) risponderanno sì, l’uno per il vantaggio diretto che ne ricaverebbe, l’altro perché -dice- ne uscirebbe una legge così brutta che il Parlamento si affretterebbe a modificarla. Ragionamento che non sta in piedi: chi crede che Berlusconi modificherà una legge che gli regalerà la maggioranza assoluta senza più bisogno di contrattare alcunché?
Certo che se alla guerra di liberazione che ha liberato la libertà ed alle menti che hanno dato vita alla nostra Costituzione, si raffronta il grigiore di questi nostri tempi c’è da avvilirsi. Ma servirebbe solo a dimostrare la vastità del berlusconismo vincente. E quelle lingue tagliate, e quella testa rotolante?

Articolo di Piero Piraccini

2 maggio 2009

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