Darfur: conflitto a bassa intensità


Irene Panozzo, Lettera 22


Il Darfur è "un conflitto a bassa intensità". A dichiararlo ufficialmente, in una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, è stato Rodolphe Adada, il rappresentante speciale congiunto delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana per il Darfur.


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Darfur: conflitto a bassa intensità

Un conflitto a bassa intensità. Un brivido deve aver percorso le schiene degli ambasciatori dei paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu quando lunedì, in un incontro a porte chiuse, hanno sentito definire il conflitto in Darfur, in corso dal 2003, con queste parole. Ad avere l’ardire di rompere la retorica che, con una certa dose di veridicità, in questi anni ha permeato i discorsi sul Sudan e in particolare la sua regione più occidentale non è stato un analista qualunque. A prendere la parola davanti ai Quindici è stato Rodolphe Adada, ex ministro degli esteri del Congo e rappresentante speciale congiunto dell’Onu e dell’Unione Africana per il Darfur. Ovvero, il responsabile politico e diplomatico dell’operazione di peacekeeping congiunta Onu-Ua, l’Unamid, dispiegata in Darfur a inizio 2008.
A bassa intensità, e non da oggi. Perché, ha spiegato Adada illustrando ai Quindici l’ultimo rapporto del Segretario generale Ban ki-Moon su Unamid, dal gennaio 2008 a oggi le morti causate da atti violenti in Darfur sono state circa 2000. Come a dire, tra le 130 e le 150 al mese negli ultimi quindici mesi. Il tutto, in una regione grande come la Francia, teatro di una guerra civile e dove il controllo del territorio è a dir poco parziale. “La situazione”, ha detto Adada, “è cambiata rispetto al periodo di intense ostilità degli anni 2003-2004, durante i quali decine di migliaia di persone sono state uccise”. Ora le cifre sono decisamente più basse e “in termini puramente numerici si tratta di un conflitto a bassa intensità”. Il che non toglie, c’ha tenuto a precisare il rappresentante speciale Onu-Ua, che la situazione rimanga grave e che ci sia “un alto rischio di escalation”.
Anche con tutte le attenzioni del caso, il discorso di Adada segna comunque un punto di svolta. Tanto più che il diplomatico congolese non ha mancato di puntare il dito anche contro i gruppi ribelli che operano in Darfur, dicendo che il conflitto si è ormai trasformato “in una lotta di tutti contro tutti”, in cui “i movimenti armati lottano gli uni contro gli altri o si liberano violentemente dei loro stessi membri”. Un quadro che rimane fosco, quindi, ma che sembra essere più vicino alla realtà della definizione di “genocidio in corso” che fino a qualche mese fa il procuratore generale del Tribunale penale internazionale dell’Aja, Luis Moreno-Ocampo, ha continuato a ripetere. Smentito poi dalla decisione dei giudici del suo stesso tribunale, che nello spiccare il mandato di cattura internazionale ai danni del presidente sudanese Omar al-Beshir a inizio marzo hanno accolto le accuse per crimini di guerra e crimini contro l’umanità e rigettato quelle per genocidio.
Non si tratta di pure disquisizioni giuridiche, come potrebbe apparire. Perché, a seconda di quale sia la definizione del conflitto, le proposte politico-diplomatiche per affrontare la crisi possono cambiare. Non stupisce quindi che, come riportano le agenzie, le parole di Adada siano state accolte con soddisfazione dalla delegazione cinese, con freddezza e aperte critiche dagli ambasciatori di Gran Bretagna, Francia, Austria e Messico. E naturalmente da Susan Rice, ambasciatore degli Stati Uniti, con un passato da attivista per il Darfur che l’aveva portata a suggerire, negli anni più cruenti del conflitto, un intervento armato e un blocco navale contro il Sudan.
In realtà, però, le notizie degli ultimi giorni sembrano indicare che anche all’interno dell’Amministrazione Obama l’atteggiamento nei confronti del governo di Khartoum stia cambiando. Sebbene in campagna elettorale sia il futuro presidente che l’allora potenziale candidata e ora segretario di stato Hillary Clinton abbiano usato parole molto dure contro il Sudan, sposando la definizione di genocidio, gli ultimi passi di Washington parlano un’altra lingua. Nelle scorse settimane si sono recati a Khartoum, in Darfur e a Juba, capitale del Sudan meridionale, sia il nuovo inviato speciale di Obama per il Sudan, Scott Gration, sia il presidente della Commissione esteri del Senato Usa, John Kerry. Entrambi hanno usato toni concilianti nei loro incontri con i funzionari sudanesi. Ma, quel che è più rilevante, mentre lunedì Kerry ha scritto sul Boston Herald che Washington deve “iniziare a ridefinire la relazione tra gli Stati Uniti e il Sudan”, in un briefing al dipartimento di Stato la scorsa settimana Gration ha chiaramente parlato di una possibile “amicizia” tra i due paesi. Da intendere come “miglior leva” per fare pressione su Khartoum, anche per quanto riguarda la situazione in Darfur. Perché, ha sottolineato Gration, “alcune sanzioni fanno più male che bene”.

Fonte: Lettera22 e il Manifesto

29 aprile 2009

 

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