Aghanistan, l’exit strategy secondo Obama


Emanuele Giordana - Lettera22


Il presidente americano pronuncia l’impronunciabile. Il segno di una svolta? Nell’immagine, uno schizzo della zona del Khyber Pass.


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Aghanistan, l'exit strategy secondo Obama

Exit strategy. La locuzione esce durante un'intervista del presidente americano Barack Obama con la Cbs. Assieme all'ammissione, già reiterata, che la sola opzione militare in Afghanistan non può vincere. E che nessuno può pensare che si possa rimanere nell'Hindu Kush per sempre. L'intervista delinea la nuova strategia americana per l'Afghanistan di cui molto si è detto e su cui si sono fatte soprattutto molte illazioni. E mentre il presidente americano si fa, passo per passo, sempre più chiaro e preciso, ecco che ne arriva un'altra attraverso la stampa britannica: il Guardian scrive, senza per altro citare se non fonti anonime, che si sta preparando il dopo Karzai. O meglio, il “durante Karzai”: un piano che prevede un premier forte e un nuovo esecutivo che bypassi il presidente in caduta libera. Ancor prima delle elezioni e col rischio, che lo stesso Guardian paventa, della sensazione che Kabul sia ormai la capitale di una colonia d'oltremare eterodiretta. Più di quanto già non sia. E, dice il Guardian, Obama scioglierà la riserva dopo il buen retiro del week end a Camp David. Settimana prossima.
Ma a parte le illazioni, Obama ha parlato: e, nell'usare quella locuzione (che non significa “andar via” ma “uscire dal pantano”), si comincia a delineare il nuovo piano della Casa Bianca: uno sforzo diplomatico, di cui l'inviato speciale per la regione Richard Holbrooke è il titolare, che legga la mappa regionale unificando la strategia per Pakistan e Afghanistan. Il focus principale resta, Obama lo spiega, impedire l'esistenza di santuari per Al Qaeda e mettere dunque fuori discussione ogni possibile sfida all'Impero americano. Ma il presidente, che pure ha appena autorizzato una nuova immissione di 17mila marine (ma non i 20-30mila richiesti dagli alti comandi militari), si dice più che convinto che non è solo a colpi di reggimenti che si vincerà la partita. Innanzi tutto va potenziato l'esercito nazionale (Ana) che, così ha scritto la Reuters qualche giorno fa, dovrebbe arrivare a 400mila uomini sul lungo periodo. E poi bisogna investire nell'economia reale, in un paese che non sembra per ora aver visto grandi risultati dalla cacciata dei talebani ad oggi. Come? Lo spiega il Guardian.
La chiave si chiama “decentramento del potere”, il piano B dopo l'affiancamento a Karzai di un premier benvoluto dagli americani e dagli alleati Nato e che dia fiducia ai suoi padrini e al paese. La sostanza è più potere ai 34 governatori provinciali e ai 369 governatori di distretto, probabilmente con una sostituzione rapida di molti degli attuali titolari. Denaro, ma anche responsabilità. Un “surge” civile, per parafrasare un'idea che sembra ormai morta e sepolta e cioè la rete di milizie armate, sulla scia di quella sperimentata in Iraq dal generale David Petraeus, e che adesso sarebbe declinata in altro modo: in chiave assai più civile che militare. Sembra dunque perder forza la vecchia strategia dei Prt (Provincial Reconstruction Team), gli avamposti civili-militari della Nato, per privilegiare un'idea alla Nato altrettanto cara quanto tardiva ed emersa nella primavera scorsa al vertice dell'Alleanza a Bucarest: l'afganizzazione del conflitto, pur se pilotata da Washington e Bruxelles. Ma chi sarebbe l'uomo forte da mettere di fianco al presidente in disgrazia? Il Guardian lancia il ministro dell'Interno Mohammed Hanif Atmar, un uomo di cui gli americani e la Nato si fidano.
Illazioni? Idee? Possibilità reali? Una cosa è certa: difficilmente Obama tirerà fuori il coniglio dal cilindro alla fine del prossimo week end. Il presidente americano sta abituando il suo pubblico a una riflessione intellettuale di lungo periodo e, nel guardare all'Afghanistan, sembra per ora cercare un saggio equilibrio tra le richieste dei falchi e la voglia liberal di uscire dal pantano a testa alta e con una vittoria politica in tasca. Il nuovo piano è dunque ancora in fieri. Ma esiste ed è radicalmente diverso da quello del suo predecessore. Obama vuole lasciare un segno come ha già fatto in Iraq, con le staminali o per l'ambiente, ma sa che questo richiede tempo e impegno.
Gli addetti ai lavori dicono che sull'aereo che riportava a casa Holbrooke dal suo primo viaggio a Kabul, nella valigia dell'inviato speciale c'era anche il libro di Jolion Leslie “The mirage of Peace”, un saggio molto critico e molto documentato, scritto a due mani con Chris Johnson (che viene dal mondo umanitario), dall'uomo che per anni è stato il rappresentante Onu a Kabul. Un libro molto duro, realista e pragmatico dove è scritto a chiare lettere che la sola opzione militare era un fallimento annunciato. E' probabilmente dando retta anche a gente come Leslie (il suo libro in America ha fatto infuriare i falchi) che la casa Bianca sta rivedendo completamente la sua strategia. Cercando una via d'uscita che si trasformi in vittoria politica.

Fonte: Articolo21 e Il Riformista

24 marzo 2009

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