Gaza: la strategia del toro
Janiki Cingoli
Il toro nell’arena carica quando vede il drappo rosso, ed è spesso più forte del torero. Qualche volta riesce anche a ucciderlo. Ma quale è la strategia del toro? Questo è il problema, quando si esaminano i risultati dell’offensiva israeliana a Gaza.
Il toro nell’arena carica quando vede il drappo rosso, ed è spesso più forte del torero. Qualche volta riesce anche a ucciderlo. Ma quale è la strategia del toro? Questo è il problema, quando si esaminano i risultati dell’offensiva israeliana a Gaza.
Certo, l’esercito ha riconquistato il suo potere di deterrenza, a prezzo di circa 1350 palestinesi uccisi, di cui oltre la metà civili, e di enormi danni alle infrastrutture e alle abitazioni. Gran parte delle armi, dei missili, dei tunnel di Hamas sono stati distrutti.
Israele ha inoltre ottenuto di porre al centro dell’attenzione internazionale la questione del traffico di armi. L’accordo siglato tra Tzipi Livni e Condoleeza Rice a Washington venerdì scorso, nell’ultimo giorno valido dell’amministrazione Bush, porta per la prima volta la cooperazione con Israele a un livello regionale, impegnando gli Usa a monitorare e combattere il fenomeno in tutto il suo percorso, dall’Iran fino alla frontiera con Gaza, utilizzando tutti i canali diplomatici e i mezzi tecnologici a disposizione, inclusi quelli navali e satellitari. Impegno analogo hanno assunto i sei leader europei guidati da Sarkozy, incluso Silvio Berlusconi, che domenica hanno partecipato prima al vertice del Cairo con Mubarak, e poi incontrato Olmert a Gerusalemme.
Infine, ha funzionato il raccordo con gli stati arabi moderati, guidati dall’Egitto insieme a Giordania e Arabia Saudita, che hanno visto la mano iraniana nella scelta di Hamas di revocare la tregua, comportandosi di conseguenza, ovvero puntando ad evitare che il confronto si concludesse con un rafforzamento dell’organizzazione islamica.
Ma i problemi aperti restano e sono grandi. L’Egitto in questi giorni ha convocato al Cairo incontri paralleli con delegazioni di Hamas e di Israele, per arrivare a stabilizzare il cessate il fuoco, con garanzie ad Israele sul controllo della frontiera a Rafah, pur escludendo lo schieramento di osservatori internazionali sul suo territorio.
Per quanto riguarda Hamas, la completa evacuazione delle forze israeliane dalla Striscia è in corso. Per la riapertura dei valichi, si punta alla riesumazione del vecchio accordo del 2005, che prevedeva la presenza a Rafah di forze europee (la missione EUBAM), insieme a truppe della ANP e egiziane, con un controllo televisivo a distanza da parte israeliana. Il controllo della striscia, tuttavia, oggi non è più in mano alla ANP, ma ad Hamas, ed un suo coinvolgimento è necessario se si vuole rendere possibile il rientro di truppe fedeli a Abu Mazen. Per quanto riguarda le forze internazionali, l’organizzazione islamica, inizialmente contraria, negli ultimi giorni ha espresso disponibilità ad accogliere forze della Turchia, il cui governo ha preso un atteggiamento violentemente critico verso l’offensiva di Israele, e mantiene rapporti ufficiali con Hamas.
Gli enormi problemi morali sollevati dall’alto numero delle vittime civili, dalla gravità dei danni inferti hanno, d’altra parte, inferto un duro colpo all’immagine di Israele e la solidarietà espressa anche in queste ore allo Stato ebraico dalle diplomazie non può certo essere estesa all’opinione pubblica internazionale, nè una parte di quella israeliana. L’ondata emotiva che si è scatenata è stata particolarmente acuta in tutti i paesi arabi e mussulmani, mettendo in difficoltà gli stessi regimi più moderati, inclusi Giordania e Egitto. La stessa credibilità di Abu Mazen e della ANP hanno ricevuto un altro duro colpo. Mauritania e Qatar hanno chiuso gli uffici commerciali bilaterali, in Indonesia è stata chiesta la chiusura dell’unica sinagoga del paese, la Turchia (alleata strategica di Israele) è arrivata a chiedere attraverso il suo premier Erdogan la cacciata di Israele dall’Onu.
Hamas, inoltre, non è stata distrutto (e questo non era d’altronde l’obbiettivo di Israele), al contrario la sua popolarità e la sua credibilità internazionale si sono rafforzate, e mantiene il suo controllo su Gaza. Secondo il capo dello Shin Bet, Yuval Diskin, nel giro di alcuni mesi tornerà a cercare di riarmarsi, grazie al supporto iraniano, puntando a dotarsi anche di missili in grado di colpire Tel Aviv. E’ evidente che l’offensiva appena finita non ha risolto nessuno dei problemi di Israele, nel medio periodo, e solo un approccio complessivo e su scala regionale è in grado di affrontarli.
Non si può fare la pace solo con metà del popolo palestinese, ignorando ed isolando l’altra metà. La stessa risoluzione 1860 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sostiene gli sforzi egiziani e internazionali per favorire un nuovo accordo interpalestinese, e Sarkozy ha affermato che un nuovo governo di unità nazionale non dovrebbe sottostare a nuove sanzioni internazionali.
Non si può fare la pace senza la Siria e senza restituire il Golan, se si vuole che Damasco collabori alla realizzazione del nuovo ordine regionale.
Non si può costruire la pace ignorando il nuovo ruolo regionale dell’Iran, senza naturalmente, per questo, cedere alle sue provocazioni e alle sue aspirazioni di nuova potenza nucleare.
In altri termini, non si può fare la pace se non si accoglie come base comune il Piano arabo del 2002, che postula il riconoscimento di Israele da parte di tutti gli Stati arabi in cambio della restituzione dei territori occupati nel ’67 (con possibili limitati scambi di territori), della creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est e di una soluzione “giusta e negoziata” del problema dei rifugiati.
Questo è sostanzialmente il nuovo Medio Oriente che Obama si propone di raggiungere. Esso sarà visto da Israele come una minaccia da contrastare con ricorrenti colpi di testa o come una sfida cui partecipare facendo i necessari sacrifici ma ottenendone i conseguenti guadagni?
Fonte: Cipmo.org