Lavoro, un precario su tre è al Sud, in cinque anni aumentati del 17%
Luisa Grion
L’esercito degli "atipici" è arrivato quasi a quota 3 milioni, il 12% del totale degli occupati Damiano (Pd): "È emergenza, servono più risorse per gli ammortizzatori".
ROMA – Un lavoratore su otto, in Italia, è precario: oggi ha un posto domani non lo sa, oggi guadagna, fra qualche mese non è detto. Un fenomeno ampio e in costante crescita: il lavoro atipico è più frequente nel Meridione, ma avanza anche nelle regioni del Nord. Tant’è che qualsiasi politica di sostegno al reddito non può non tener conto della tendenza e lo stesso ministro del Welfare Sacconi propone di estendere gli ammortizzatori sociali anche a questo “popolo dell’incertezza”.
A mettere il pianeta in cifre ci ha pensato la Cgia di Mestre scoprendo che di lavoratori precari in Italia ce ne sono ben 2.812.700 (dato aggiornato al mese di settembre): il 12 per cento degli occupati (quasi 20 milioni). In grande maggioranza operano nel Sud (il 33,4 per cento) ma la tipologia è in netto aumento anche nel Settentrione. Negli ultimi cinque anni, infatti, il lavoro precario in Italia è aumentato quasi del 17 per cento, ma nel solo Nord-Est del 24,6. Nello stesso lasso di tempo il lavoro a tempo indeterminato è aumentato del 3,1 per cento appena.
Secondo la Cgia di Mestre la predominanza numerica del Meridione si spiega con la maggiore concentrazione di attività stagionali: dall’agricoltura all’industria di conservazione, dalla ristorazione agli alberghi. Ma Giuseppe Bortolussi, responsabile della Cgia di Mestre, fa notare come “una buona parte dei precari del Mezzogiorno sia assunto nel settore pubblico”.
Un dato che ha molto colpito il ministro-ombra del Welfare Cesare Damiano, Pd: “Lo studio della Cgia di Mestre conferma l’emergenza e noi intendiamo favorire l’estensione degli ammortizzatori anche usando risorse aggiuntive” ha detto. Ma per quanto riguarda il settore statale “la decisione del ministro Brunetta di cancellare la normativa del governo Prodi tesa a superare la precarietà nel pubblico impiego è stata negativa. Questa scelta aggiungerà nuova disoccupazione a quella già esistente e trasformerà quei lavoratori in neo assistiti, con grave danno per il funzionamento della pubblica amministrazione”.
Lo studio della Cgia prende in considerazione anche l’ammontare delle ore lavorate: un co. co. pro fa mediamente 31 ore alla settimana, un prestatore d’opera occasionale ne lavora 23 contro le 37 medie di un operaio a tempo determinato (35 per l’impiegato). Ciò vuol dire – spiega Bortolossi – che “almeno in linea teorica ci sono le condizioni, per alcuni settori, per ragionare sulla settimana corta in funzione anti-crisi”.
Fonte: Repubblica.it
4 gennaio 2009