Tutti con Al-Zaidi
Marina Mastroluca
Non era un’arma di distruzione di massa, ma ha sbriciolato la residua credibilità di una presidenza fallimentare. Da noi anche un mocassino lanciato è più uno sberleffo che un’offesa umiliante. E invece un paese intero si è riconosciuto in quel paio di scarpe volanti: letteralmente l’Iraq è quel paio di scarpe.
Dalle armi di distruzione di massa che Colin Powell, fialetta alla mano, mostrava alle Nazioni Unite invocando la guerra in Iraq non sappiamo altro che furono una svista: non c’erano, il presidente Bush se ne dispiace nelle sue interviste d’addio mentre si accomoda all’uscita. Errare è umano, insomma, è andata così, tutta colpa dell’intelligence che non sa di che cosa parla. Sappiamo molto di più del paio di scarpe che sorvolando la platea di giornalisti in conferenza stampa a Baghdad ha sfiorato la testa presidenziale, concludendo la sua storica missione sul pavimento: era un 10, un 44 e mezzo, l’ha detto lo stesso Bush ai cronisti facendosi una risata. Non era un’arma di distruzione di massa, ma ha sbriciolato la residua credibilità di una presidenza fallimentare. Doveva essere un’offesa mortale, nelle intenzioni del lanciatore che da mesi meditava l’attacco, neanche fosse stato un kamikaze pronto ad immolarsi. L’insipienza del presidente che dichiarò “missione compiuta” il 1°maggio del 2003 – cinque anni e mezzo di inferno fa – l’ha buttata in farsa. Bush è un ragazzone del Texas, che regala stivali ai capi di Stato in trasferta nel suo ranch. Il suo è un mondo che adora gli speroni. E le scarpe che gli sono piovute addosso non ne avevano. “Mettiti nelle mie scarpe”, per gli anglosassoni è lo stesso che dire “mettiti nei miei panni”, guarda le cose dal mio punto di vista. Perché la scarpa conserva l’impronta del piede di chi l’ha portata, un pezzo della sua storia: la strada fatta che ha consumato le suole, le pieghe della pelle che ha assorbito la forma del suo contenuto. “Mettiti nelle mie scarpe”. Bush non sembra averlo mai fatto quando i suoi bombardieri seminavano ordigni “taglia margherite”, prima dei titoli di coda, quando si è accorto che non era su un videogame. Bombe “taglia margherite”: un nome poetico per dire che dove cadevano non sarebbe sopravvissuto neppure uno stelo d’erba. Mucchi di scarpe agli angoli delle strade. Scarpe spaiate, impolverate, sporche di sangue. Chissà perché i morti le perdono subito nelle esplosioni delle bombe, sotto alle macerie delle case distrutte, nella follia dei kamikaze che divampano tra la folla. Da quando la guerra è ufficialmente “finita” 98.133 persone sono state uccise in Iraq, 98.133 paia di piedi che non camminano più. Le loro scarpe finite chissà dove. “Cane”, ha gridato Muntazar Al-Zaidi, il lanciatore di scarpe, già diventato un eroe, con uno stuolo di avvocati pronti a difenderlo e una nascente intifada dei mocassini che sommerge di vergogna gli occupanti americani. Da noi “cane” non è una vera offesa, porta con sé il sentore stantio degli insulti di una volta. I militari Usa usavano cani – per gli islamici animali immondi – per perquisire le case dei civili iracheni, suscitando ribrezzo e sommosse. Da noi anche un mocassino lanciato è più uno sberleffo che un’offesa umiliante. E invece un paese intero si è riconosciuto in quel paio di scarpe volanti: letteralmente l’Iraq è quel paio di scarpe. Due modi diversi per guardare le stesse cose, la guerra degli occupanti e degli occupati. Due mondi diversi. E una distanza e una sofferenza troppo grandi per pensare che quella di Baghdad sia solo la comica finale. Non sarà una risata a seppellire le guerre di Bush.
Marina Mastroluca
Fonte: l’Unità
17 dicembre 2008