I nostri ulivi ed il loro muro


BoccheScucite


Perfino lì dove la tragedia è diventata catastrofe umanitaria, nella Striscia di Gaza sotto assedio ed embargo, tutto ciò che accade è conosciuto solo da chi -come il piccolo team di internazionali di Pax Christi- si trova lì sul posto e vede con i suoi occhi un crimine che rimarrà impunito.


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I nostri ulivi ed il loro muro

Con il Dott. Salim abbiamo lasciato da poco l'ambulatorio del Centro di riabilitazione all'interno del campo profughi di Shufat (25.000 persone in un chilometro quadrato) e già siamo costretti a fermarci al check-point permanente che separa il campo da Gerusalemme. Ha appena comprato il quotidiano di Gerusalemme Al-Quds e anch'io, pur non sapendo l'arabo, resto colpito dall'immagine in prima pagina (ripreso nella nostra copertina): tra le fessure del muro di apartheid un fragile ma ostinato ramo di olivo resiste e si fa strada tra il cemento per dimostrare che, nonostante tutto, la vita è più forte. In coda al check-point Salim mi traduce con orgoglio la didascalia del giornale: I NOSTRI ULIVI E IL LORO MURO.
Stamattina ci sono una ventina di persone in fila che si notano subito: sono le giacche-cravatte-e-ventiquattrore di tanti medici che abitano in località diverse della West Bank e che devono raggiungere al più presto l'Augusta Victoria Hospital sul monte degli ulivi a Gerusalemme. Ma da qualche giorno c'è una novità: l'esercito ha deciso che non potranno più passare di qui. È una nuova immotivata violazione del diritto al movimento e alla salute. Più tardi ci informiamo ed ecco la denuncia di due organizzazioni, Physicians for Human Rights e Israel and Palestinian Medical Relief Society: “Più di un migliaio, tra medici e paramedici, che vivono nella West Bank, sono costretti a percorrere chilometri per raggiungere l'unico varco che l'esercito concede al passaggio del personale medico. Un lungo inutile tragitto e incalcolabili ore di attesa sono un prezzo insopportabile per tutti e una gravissima violazione dei diritti umani fondamentali per persone che, per curare i loro pazienti, devono raggiungere al più presto gli ospedali. Per questo il 4 novembre più di cento dottori hanno protestato al check-point di Qalandya contro queste assurde e pesanti restrizioni”. È l'esercito che ha deciso: tutto il personale medico d'ora in poi dovrà raggiungere Qalandya. Questo illegale e assurdo posto di blocco sta per essere trasformato in “terminal” nell'ottica perversa di “umanizzare” un crimine, invece di cancellarlo. A Qalandya siamo andati ancora unavolta con le donne coraggiose di Machsom Whatch, israeliane contrarie all'occupazione: “È forse il peggiore tra tutti i check-point della West Bank, sia per l'enorme numero di persone che sono costrette ad attraversarlo (e da entrambi i lati è territorio palestinese!), sia per l'assoluta arbitrarietà che “regola” la concessione dei permessi di passaggio -ci racconta un esponente di Physicians for Human Rights, denunciando le drammatiche conseguenze di quest'ultimo provvedimento sull'attività degli ospedali. Sconsolato rileva che “si tratta solo dell'ultima, ennesima restrizione illegale che attenta direttamente alla vita di milioni di esseri umani, nel silenzio della comunità internazionale”.  
Non ci stancheremo di denunciarlo: tutto quello che, a causa dell'occupazione, la gente subisce e sopporta pazientemente ogni istante e in ogni ambito della sua esistenza, non scandalizza più nessuno semplicemente perché nessun media riporta la notizia. Perfino lì dove la tragedia è diventata catastrofe umanitaria, nella Striscia di Gaza sotto assedio ed embargo, tutto ciò che accade è conosciuto solo da chi -come il nostro piccolo team di internazionali di Pax Christi- si trova lì sul posto e vede con i suoi occhi un crimine che rimarrà impunito. Avete forse letto della Conferenza medica Internazionale che l'esercito israeliano ha boicottato, impedendo a più di 120 luminari da tutto il mondo di raggiungere Gaza? Quando hanno mostrato in TV le distruzioni delle povere case palestinesi e i continui arresti nelle incursioni notturne dell'esercito? Quale organo d'informazione ha denunciato la violenza, quest'anno particolarmente pesante, dei coloni nei confronti degli agricoltori palestinesi e delle loro piante di olivo?
Eppure, in questi giorni non c'è nessuno che non abbia visto in TV le certo deprecabili liti tra religiosi nel Santo Sepolcro! Ma allora dipende ancora una volta dalla nostra caparbia fatica di “scucire la bocca” a chi può raccontarci la verità. È quello che faremo anche sabato 29 novembre a Firenze, nel Convegno “Terra santa, terra ferita”, dando voce a chi può farci meglio capire quella “situazione di fatto sul terreno” che sta irrimediabilmente allontanando la pace: l’inarrestabile
furto della terra, dell'acqua, dei beni, del tempo e dello spazio e la capillare espropriazione-distruzione-occupazione di ogni angolo di terra e di vita attraverso la colonizzazione e il muro.
Questo lavoro di ricostruzione della verità non è semplice. Restando nel contesto medico di questo Editoriale, basti pensare che anche in Italia ci sono alcune Amministrazioni locali che, invece di chiedersi come sostenere il debolissimo sistema sanitario palestinese e tre milioni di persone che nei Territori Occupati soffrono di enormi carenze mediche, finanziano l'attività del Centro Peres che in Italia viene presentato come esempio concreto di riconciliazione tra i due popoli.
Ma leggerete in questo numero la forte critica di Meron Benvenisti e scoprirete che “nell’attività del Centro Peres per la Pace non c’è nessuna volontà di un cambiamento dello status quo politico e socioeconomico nei Territori Occupati, casomai proprio l’opposto: gli sforzi sono fatti per addestrare la popolazione palestinese ad accettare la sua inferiorità e prepararla a sopravvivere sotto le costrizioni imposte da Israele per garantire la superiorità etnica degli ebrei”. È uno “stile colonialista” quello con cui il centro finanzia i ricoveri di bambini palestinesi in ospedali israeliani invece di aiutare le fatiscenti strutture sanitarie arabe nei Territori Occupati. È esattamente quello che tanti inconsapevolmente fanno in Italia illudendosi di contribuire alla pace mantenendo un sistema di oppressione che non punta a superare l'ingiustizia ma a sostenere le “buone azioni” dell'oppressore. Ma per chi come noi era esattamente lì, in particolare in un ospedale pediatrico di Betlemme, è chiarissima la protesta dell'infermiera che ci ha detto:”Invece di destinare milioni di euro al centro Peres per operare palestinesi in Israele, perché non si appoggia la costruzione dell'ospedale a Ramallah?”.

Editoriale di "BoccheScucite"

novembre 2008

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