E ora la grande crisi del cibo può frenare la globalizzazione
Maurizio Ricci
"La crisi del cibo che ha squassato negli ultimi mesi soprattutto i paesi emergenti ha sicuramente acuito la sensibilità dei governi ai problemi della produzione agricola", ma il compromesso sui dazi, che quest’anno ha mandato in fumo 125 miliardi di risparmi, sembra ancora lontano.
La marcia trionfale della globalizzazione si era già fermata. Almeno da due anni, l'idea che l'economia mondiale fosse inevitabilmente destinata ad integrarsi sempre più, con benefici a cascata per tutti, aveva perso vigore e capacità di convinzione. Ma, adesso, lo scenario che rischia di aprirsi è quello della ritirata. Il fallimento, ieri, a Ginevra, del disperato tentativo di rianimare la trattativa commerciale globale, avviata a Doha nel 2001 e rimasta bloccata in sette anni di impasse ha un impatto, prima ancora che economico, psicologico: si esaurisce l'attitudine a vedere, nell'apertura dei mercati, prima i vantaggi che gli svantaggi e la globalizzazione non appare più irreversibile. D'altra parte, è già successo: un secolo fa, quando si spense la prima ondata di mondializzazione dell'economia.
Il punto specifico su cui, dopo 24 ore di negoziato quasi ininterrotto, è naufragato questo ultimo capitolo del Doha Round, è la protezione dei piccoli contadini indiani (e cinesi). Nuova Delhi, con il sostegno di Pechino, reclamava la possibilità di aumentare i propri dazi agricoli, nel caso di un aumento anomalo delle importazioni, che togliesse troppo spazio alle centinaia di milioni (in Cina i piccoli contadini sono 800 milioni) di produttori nazionali. La bozza di accordo stabiliva la soglia di anomalia ad un aumento del 40% delle importazioni. L'India controproponeva il 10%, una soglia troppo bassa, secondo gli americani, in grado di innescare troppo facilmente una chiusura protezionistica. Nessuno pensava che l'ambizioso tentativo di aprire ulteriormente l'intero mercato agricolo e industriale mondiale potesse arenarsi su questo scoglio. La crisi del cibo che ha squassato negli ultimi mesi soprattutto i paesi emergenti ha sicuramente acuito la sensibilità dei governi ai problemi della produzione agricola, ma un compromesso sembrava a portata di mano: nell'ultimo tentativo di accordo non c'era nessuna cifra a segnare il grilletto che poteva far scattare l'aumento dei dazi, lasciato ad una decisione caso per caso.
In realtà, il negoziato è fallito, come era già avvenuto nei tentativi precedenti, per l'accumularsi dei veti incrociati. Cina e India non digerivano che gli Usa, dove oggi i sussidi ai produttori agricoli, soprattutto di cotone e zucchero, valgono 7 miliardi di dollari, si riservassero la possibilità di arrivare fino a raddoppiarli. Gli agricoltori europei reclamavano una protezione più decisa dei propri marchi geografici, per proteggere la propria produzione di qualità dalle incursioni dello champagne americano o del prosciutto di Parma cinese. Soprattutto, in termini generali, non ha funzionato l'abituale scambio agricoltura-industria.
Quando il Doha Round è partito, sette anni fa, l'idea generale era di concedere l'apertura dei mercati occidentali alle importazioni agricole dei paesi emergenti, in cambio dell'apertura dei loro mercati ai prodotti industriali (e, in prospettiva, a banche e assicurazioni) dell'Occidente. Ma, in sette anni, il panorama mondiale è stato rivoluzionato. La Cina è diventata il maggior esportatore mondiale e il cuore dell'industria manifatturiera globale si è spostato nei paesi emergenti: in Cina, in India, in Brasile.
Nell'ottica del Doha Round, tuttavia, questi paesi mantenevano le protezioni da paese in via di sviluppo. Nel caso dell'auto, per esempio, l'Europa avrebbe dimezzato dal 10 al 4,5% il proprio dazio sull'import di auto da paesi, come Cina e India, che, in questi mesi stanno conducendo una politica commerciale assai aggressiva sui mercati occidentali.
Contemporaneamente, la Cina avrebbe abbassato i suoi dazi solo dal 25 al 18% e il Brasile dal 35 al 22%. Mantenendo la possibilità di esentare interi settori industriali dal taglio delle tariffe. Troppo poco, perché, come era avvenuto nei precedenti round commerciali, le lobby industriali occidentali premessero sui governi perché accettassero concessioni in materia di agricoltura.
In termini puramente economici, in realtà, il fallimento di Ginevra ha un impatto relativamente modesto. Anche se alcuni paesi potevano ricavarne benefici sostanziali (l'Italia aveva calcolato un aumento delle proprie esportazioni per 500 milioni di euro l'anno), a livello generale il Doha Round spostava poco. Lo stesso Wto, l'Organizzazione mondiale del commercio, aveva calcolato che un accordo avrebbe comportato un risparmio di 125 miliardi di dollari l'anno in dazi non pagati. L'effetto avrebbe fatto aumentare il prodotto mondiale di 50-70 miliardi di dollari, non più dello 0,1% del Pil globale. Come mai così poco? Perché, in realtà, negli anni scorsi paesi ricchi e paesi emergenti hanno già drasticamente tagliato i propri dazi: oggi alla dogana si paga, in media, nel mondo, il 7%. Cioè, già meno di quanto si doveva concordare a Ginevra.
Per questo, il fallimento del negoziato ha un valore più psicologico che economico. La trattativa del Doha Round riguardava, infatti, nella maggior parte dei casi, la tariffa massima applicabile, non sempre (vedi l'auto), ma spesso superiore a quella oggi applicata. Un accordo, dunque, serviva ad impedire che, in futuro, questi dazi venissero di colpo moltiplicati, rispetto ai livelli attuali.
Il collasso di questo tentativo è un segno dei tempi. La globalizzazione ha già subito, in questi mesi, una serie di duri colpi. La crisi dei subprime ha rivelato la fragilità di mercati, in mano ad una finanza internazionale senza regole. La crisi del cibo ha mostrato quanto, a livello nazionale, possa essere pericoloso affidarsi alle forniture dall'estero per il proprio fabbisogno alimentare. L'impatto della corsa del petrolio sul prezzo dei trasporti sta mettendo in dubbio la razionalità delle scelte di delocalizzazione industriale. Ora, la battuta d'arresto riguarda la liberalizzazione del commercio che, della globalizzazione, è stata in questi anni la struttura portante e il maggior successo. Almeno in teoria, il fallimento di Ginevra non esclude, in realtà, che le trattative possano riprendere, anche nei prossimi mesi. Tuttavia, diplomatici e osservatori – con l'occhio soprattutto al prossimo cambio della guardia a Washington – sono per lo più convinti che la pausa sarà lunga e che il negoziato dovrà, forse, ripartire da zero. Gli economisti, comunque, non ritengono che questo stop possa colpire il livello del commercio mondiale. Troppo radicato, ormai, il decentramento globale delle catene di fornitori (la cosiddetta "fabbrica mondiale") e troppo radicate, anche, le abitudini e le attese di produttori e consumatori per pensare ad una svolta. Senza l'ombrello del Doha Round, tuttavia, il commercio mondiale punterebbe più sulla creazione di blocchi regionali, come la Unione europea, il Nafta americano e un eventuale aggregazione asiatica, frammentando il processo di globalizzazione: questo non garantirebbe regole uguali per tutti e, alla lunga, potrebbe pesare sullo sviluppo mondiale.
Nell'immediato, il fallimento di Ginevra ha, piuttosto, conseguenze anche politiche. Intacca la credibilità di una organizzazione internazionale. Ridimensiona l'entrata in scena di una grande potenza. Colpisce il tentativo ambizioso di dare una voce unica ad un gruppo di paesi, divisi da interessi contrastanti. L'organizzazione è il Wto, sempre meno in grado di presentarsi come una trasparente stanza di compensazione delle strategie economiche mondiali.
La grande potenza è la Cina, che partecipava, per la prima volta direttamente, al negoziato commerciale globale e che ne esce con un nulla di fatto. Il gruppo di paesi è l'Unione europea: il Wto è l'unica sede in cui il rappresentante della Commissione di Bruxelles parla e tratta a nome di tutti i paesi membri. Un successo avrebbe rafforzato la spinta ad una gestione sovranazionale della politica europea.
Fonte: Repubblica.it
30/07/2008