Voglia di normalità nella capitale della guerra
Emanuele Giordana - Lettera22
Alla fine consideriamo gli afgani un popolo di guerrieri in armi, tutt’al più in fuga dalla guerra. Eppure in questo paese c’è anche una maledetta voglia di normalità. Di un week end fuori porta come pensiamo di meritare anche noi a ogni fine settimana. Un viaggio controcorrente nel turbine del conflitto.
Kabul – I milanesi che al week end prendono la via dei laghi, non meno dei romani che al fine settimana scelgono Bracciano o il piccolo bacino lacustre di Martignano, mettono sempre in conto di partir presto. Dopo le dieci del sabato mattina c'è una coda che non ti dico e lo stesso vale, dopo le cinque del pomeriggio, alla domenica. Ma cosa pensereste se la medesima cosa capita a Kabul, la capitale per eccellenza del conflitto permanente e di una guerra nemmeno poi tanto nascosta?
Eppure se al venerdì, che è poi la nostra domenica, vi avventurate sulla strada verso Paghman avreste delle sorprese. Questa “ridente” cittadina a Ovest della capitale, è un luogo famoso per un Arco di Trionfo dedicato a re Amanullah che qui nacque ed è noto per il clima mite. Tappa obbligata di ogni gita turistica, si trova sulla strada che passa per Kargah, un lago artificiale costruito all'inizio degli anni Sessanta e sovrastato da un enorme ristorante con terrazza, giardini ben curati e vista, oltre che sul lago, sulle ville della famiglia reale che, ai bei tempi della monarchia, reclamava tutto per sé questo angolo di pace alle porte della città. Ma la pace è un concetto tutto virtuale. E non solo perché un vento dispettoso trascina, nei potenti refoli che attraversano il lago, dei piccoli tornadi di polvere che si perdono sullo specchio d'acqua. L'amena località è piena di famiglie, coppiette, anziani in cerca di frescura, venditori di manghi e meloni, improvvisati ristoranti con l'immancabile kebab nelle sue svariate forme e versioni. La ressa è così potente che già ve ne eravate accorti uscendo da Kabul nei rallentamenti lungo la strada a due corsie che porta fuori città. Sul ponte che fa da cintura alla diga, il rallentamento si fa coda ed è solo l'anticipo di quel che vi aspetta al rientro. Il ristorante-parco sul lago prevede un biglietto d'ingresso con consumazione annessa. Sotto una tettoria, un gruppo rigorosamente maschile di pashtun di varia estrazione sociale e svolazzanti nelle larghe shalwaz kamez o in abiti di taglio occidentale, si fanno una canna sorseggiando tè. Bambini fortunati leccano gelati o succhiano lattine mentre fratellini meno baciati dalla dea bendata vendono gomme da masticare o improbabili dolciumi accatastati in rigide scatolette di sudicio cartone. Qualche coppietta di giovani cittadini, lei appena coperta dal velo, scendono sulla riva del lago a bagnarsi i piedi e a stonare nel quadretto, in effetti, c'è solo un gruppetto di giovani funzionari dell'ambasciata inglese accompagnati da due mastini con auricolare, giubbotto antiproiettile, pistola e trasmittente che stanno a debita distanza ma non certo con l'intenzione di non farsi notare.
Se non fosse dunque per i ricordi della guerra che, purtroppo finiscono ad essere impersonati soprattutto da noi occidentali qui ormai solo per lavoro e non certo per gite turistiche, il conflitto che si fa strada sempre più spesso anche nelle vie della capitale sembra maledettamente lontano. Così lontano da riconciliare il mondo col mondo e da trasformare gli afgani, questi attraversatori quotidiani dell'inforno, in esseri perfettamente normali, con quella voglia di allegra normalità, venata appena dalla tristezza classica dei giorni di festa (che il mattino dopo si ricomincia…), che in tutto il mondo accompagna la domenica o, come accade qui, il venerdì.
Di questa voglia di normalità, di questo desiderio, alla fine, di menar una vita tranquilla coi ritmi del sole e non delle sirene di allarme, è piena questa città se appena tentate di uscire da quell'involucro trasparente ma opaco in cui venite racchiusi appena ci mettete piede. La vostra ambasciata, per eccesso di zelo, vi accompagnerà con sollecite telefonate per sapere come state e con raccomandazioni che faranno di voi, se eseguite nel dettaglio, un essere che, più che vivere, sopravvive.
Se l'ossessione della sicurezza si impadronisce di voi, ed è facile che così avvenga, la vostra vita a Kabul si restringe tra i muri di un albergo, in ristoranti che servono cattive pietanze occidentali o persino in quei terribili templi della nutrizione globalizzata, i Kentucky Fried Chicken del colonnello Sanders, che sono sbarcati anche qui. Tra prudenza e ossessione, dicono qua, corre un bilancio che si mangia, in misure di sicurezza, forse il 40% delle spese per la ricostruzione. Costretti nelle scatole prefabbricate dalla nostra montante paranoia, siano stanze d'albergo, uffici corazzati o auto a prova di bomba, si diventa burattini in giubbotto antiproiettile incapaci di percepirla questa voglia di normalità degli afgani. Non van di fretta, come pensereste, per sfuggire a un attentato. E' solo che non vogliono far tardi, per la preghiera o per il mercato. Non già che le bombe non ci siano e anzi, il bollettino ne decreta una preoccupante escalation. Ma a Kabul sembrano sapere gli orari, tra le otto e le dieci del mattino, e i target, di solito obiettivi istituzionali o militari, da cui è bene tenersi alla larga.
Istituzioni e soldati del resto ci pensano da soli a mettere tra loro e il resto del mondo una cortina di cemento e ferro sufficiente a tenervi alla larga. Dietro Chicken Street, la mitica via hippy degli anni Settanta, il potente ministero dell'Interno vi fa anche cambiare marciapiede. Ma con un po' di leggerezza forse vi siete già persi appunto a Chicken Street, dove si vendono paccottiglie ma anche libri e, con un po' di fortuna, qualche oggetto di valore.
La sera commettiamo l'ennesima imprudenza. Andiamo a mangiare al parco di Shar-e Naw dove ci attraggono le luci di alcuni ristoranti sulla strada dietro al grande cinema con film indiani in cartellone. E dopo giriamo a piedi, per digerire, mentre le luci si fan più fioche in questa città dove la luce elettrica è una scommessa. Abbiamo scelto, non a caso, di evitare gli squallidi grattacieli di vetrocemento che crescono come funghi con la speculazione che, come ovunque nel mondo, ricicla denaro e investe nella bolla edilizia. In questi albergoni che imitano Dubai, o forse Pristina, c'è una ricchezza abbagliante che mette a disagio. Non per moralismo. Per forza del kitsch con cui si esprime: un'opulenza che parla un linguaggio da narcotraffico neanche tanto velato.
Sulla strada che da Kargah ci riportava a Kabul – un'ora buona per una decina di chilometri – abbiamo modo di notarne un altro aspetto. Nel quartiere che, sovrastato dall'imponente Intercontinental Hotel, si stende ai piedi della montagna le ruspe lavorano. Allargano la strada, forse per promuovere il turismo fuori porta. Ma distruggono vecchie casette anni Sessanta a due piani della buona borghesia cittadina. Pare che l'esproprio abbia fruttato ai vecchi proprietari 100mila dollari e l'assegnazione di un nuovo lotto. Un buon affare. Ma a veder crollare una delle zone più suggestive dell'urbanistica locale piange il cuore. Il suo futuro sarà forse quello della vecchia area demaniale di Wazir Akbar Khan., adesso nuovo quartiere-bene, dove potenti mujaheddin hanno preteso dal Comune lotti edificabili. E' un'orgia di kitsch da nuovi ricchi con magioni miliardarie il cui stile imperante è quello pacchiano delle ville pachistane, ornate da mosaici colorati e da colonne alla Capitol Hill inframmezzate da aulici richiami all'arte persiana. Anche questa oggi è la normalità di Kabul.
Fonte: Lettera22 e il Manifesto
13 luglio 2008
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