Fao: l’occasione mancata e il "baile latino"
Emanuele Giordana - Lettera22
Al termine della Dichiarazione finale del summit Fao di Roma sull’emergenza alimentare si legge che Argentina, Cuba e Venezuela hanno preparato una loro dichiarazione che “sarà allegata”. Considerazioni a margine sulla protesta – condivisibile – che è ancora un fantasma.
Al termine della Dichiarazione finale del summit Fao di Roma sull'emergenza alimentare si legge che Argentina, Cuba e Venezuela hanno preparato una loro dichiarazione che “sarà allegata”. Come sappiamo è stata l'opposizione di questi paesi, col sostegno di Nicaragua, Ecuador e Bolivia, a bloccare per alcune ore il summit. Questione di parole si dirà e dunque poco interessante. E' noto che nei consessi internazionali si litiga ore su un termine.
Ma le rimostranze argentine, che contestavano l'impossibilità per un paese di imporre misure restrittive sul proprio export (Buenos Aires produce sette volte più di quel che le serve e dunque si è risentita), dicono qualcosa di più che una semplice battaglia di parole. Al vertice si è creato un vero e proprio controcanto sudamericano, una sorta di cartello che però ancora non sappiamo quanto sia condiviso da altri paesi iberoamericani. Al momento, il documento dei “ribelli” ancora non c'è e dunque possiamo solo far riferimento agli interventi ascoltati. Se dunque tutto partiva dalla contestazione di un aggettivo, che per gli argentini significava l'imposizione esterna sulla sovranità nazionale nella vendita dei propri cereali, gli interventi dei tre paesi si sono trasformati in una vera e propria condanna della gestione dell'economia agricola da parte del primo mondo. Baires e Caracas dicevano in sostanza che, in un pianeta dominato dall'agrobusiness e dalla speculazione finanziaria delle grandi borse internazionali, i paesi ricchi han sempre fatto il bello e il cattivo tempo fino a ieri mentre ora sposano la liberalizzazione delle merci e l'abbattimento dei dazi che può penalizzare paesi deboli o emergenti. Cuba aggiungeva che non capiva come mai la dichiarazione non prevedesse l'appello al multilateralismo che i cubani avevano sollecitato e che seguiva alla richiesta di infilare una frasetta sull'embargo. In effetti, se togliamo gli occhiali ideologici con cui di solito si guarda all'Avana, la richiesta era legittima. Se l'embargo impedisce a un paese di importare i ricambi dei trattori, come si fa poi a chiedergli di produrre di più? E domandare che il multilateralismo sia un principio condiviso non è forse sensato in un mondo dove, in agricoltura e non solo, ogni paese (forte) è andato finora per i fatti suoi?
Il fronte iberoamericano ha così finito per dire – pur se all'origine delle singole posizioni c'era chiaramente il desiderio di difendere l'interesse nazionale – quello che la dichiarazione non dice e quello per cui – dal Vaticano a Oxam sino al Forum parallelo – tutti hanno criticato il vertice pur con sensibilità diverse. In buona sostanza l'opposizione dei tre paesi latini sosteneva che l'agricoltura mondiale dovrebbe essere governata da regole che mettano a nudo la potenza dell'agrobusiness, i punti oscuri dell'esplosione degli agrocarburanti, la minaccia della speculazione, il problema della protezione della rete dei piccoli contadini che, ovunque nel mondo, è la vera resistenza all'oligopolio dei pomodori coltivati con semi geneticamente modificati che crescono in colture idroponiche, costano di meno e non sanno di nulla. Forse fan persino male alla salute, oltre che alle economie deboli.
L'impressione però è che una battaglia in linea di principio condivisibile si sia trasformata solo in un “baile latino” che ha tenuto in scacco il summit ma che per ora ha partorito un topolino. Anzi manco quello visto che, a due giorni dalla fine del vertice, la dichiarazione fantasma ancora non c'è.
Fonte: Lettera22, il manifesto e blog di Emanuele Giordana