Tibet, ma non era inutile manifestare?


Piero Verni


Il biografo del Dalai Lama commenta la recente apertura di Pechino… Allora diamo un’occhiata ai fatti.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Tibet, ma non era inutile manifestare?

A metà gennaio 2008, sull’edizione telematica della rivista Nouvel Observateur («Je_suis_un_marxiste_en_robe_bouddhiste»), uno sconsolato Dalai Lama era costretto ad ammettere che i contatti tra i suoi inviati e i rappresentanti di Pechino erano finiti su di un binario morto. Aveva infatti rivelato che nel luglio 2007 l’ultimo infruttuoso incontro tra diplomatici tibetani e cinesi si era concluso con la seguente frase di uno di questi ultimi: “Non esiste alcun problema tibetano”. Il 4 gennaio di quest’anno, cinque Organizzazioni Non Governative (ONG) tibetane lanciavano il “the Tibetan People’s Uprising Movement”, che riapriva con forza la battaglia per la liberazione del Tibet organizzando la “Marcia Verso il Tibet” che sarebbe partita da Dharamsala, il 10 marzo. Da subito questa iniziativa incontrò il favore di un crescente numero di tibetani dell’esilio e suscitò grandi attese in Tibet. Tutti ritenevano che l’imminente apertura dei Giochi Olimpici fornisse un palcoscenico privilegiato per contestare il governo della Repubblica Popolare Cinese. Tra gennaio e marzo, la preparazione della “Marcia Verso il Tibet” galvanizzò anche un buon numero di organizzazioni di sostegno al Tibet e di amici internazionali della causa tibetana. Per la prima volta, dopo tanto tempo, una ventata d’aria fresca e di entusiasmo attraversava un mondo che in termini di fiducia e attivismo aveva pesantemente risentito dell’annoso immobilismo del Governo tibetano in esilio (GTE). Il 10 marzo la “Marcia Verso il Tibet” parte da Dharamsala e cattura immediatamente una straordinaria attenzione dei mass media di tutto il mondo. Le autorità tibetane assistono in silenzio al dispiegarsi di questa iniziativa che non vedono di buon occhio, timorose che possa irritare Pechino e vanificare del tutto anche quel poco che rimane di contatti con la Cina. Sempre il 10 marzo i monaci dei monasteri di Lhasa iniziano a manifestare contro la presenza cinese in Tibet venendo brutalmente repressi dagli squadroni della Polizia Armata. L’11 e il 12 marzo, mentre in India continua la “Marcia Verso il Tibet”ed iniziano a diffondersi voci di un imminente intervento della polizia indiana per bloccarla, a Lhasa monaci di quasi tutti i monasteri scendono in piazza in un crescendo di proteste che iniziano ad allargarsi alla popolazione civile. La polizia interviene duramente caricando e, secondo alcuni testimoni oculari, sparando. Alla fine tutti i principali luoghi di culto della capitale tibetana vengono circondati e sigillati da un duplice cordone di sicurezza in modo che nessuno possa entrare o uscire. La mattina del 13 marzo, gendarmi di Nuova Delhi arrestano tutti i marciatori, il poeta e noto attivista Tenzin Tsundu, più tre dirigenti delle organizzazioni responsabili della Marcia. La notizia ha un eco giornalistico eccezionale e suscita una profonda emozione ovunque. Mai, negli ultimi anni, la situazione tibetana aveva ottenuto un tale risalto. Il 14 marzo a Dharamsala il professor Samdong Rinpoche, primo ministro del GTE, chiede ufficialmente che la “Marcia Verso il Tibet” termini per non violare le leggi indiane. Le cinque ONG non ascoltano questa richiesta e decidono di andare avanti con un altro contingente di marciatori. Tra l’altro, fanno notare come la loro iniziativa si collochi all’interno di una cornice rigorosamente non violenta sia per quanto riguarda i fini sia i mezzi e si richiami esplicitamente alla gandhiana “Marcia del Sale”. Infatti tra di loro le foto del mahatma sono numerose quanto quelle del Dalai Lama. Gli arresti, la resistenza passiva dei marciatori, la volontà di proseguire con altri volontari, la diffusione delle immagini attraverso centinaia di servizi televisivi… tutto questo provoca un vero e proprio “tsunami” di simpatia verso l’iniziativa e le cinque ONG sono sommerse da migliaia di messaggi di solidarietà che le esortano inoltre a non mollare. Nelle stesse ore a Lhasa scoppia la collera dei tibetani e la città insorge. Migliaia di persone prendono possesso delle piazze della capitale e si scagliano contro tutti i simboli del dominio cinese sul Tetto del Mondo. Decine e decine di negozi dei coloni hui, paradigma dello sfruttamento coloniale, dell’emarginazione economica, dell’arroganza del potere, fanno le spese della frustrazione, dell’esasperazione, della disperazione, della rabbia accumulate dai tibetani in quasi sessant’anni di oppressione: sono distrutti o dati alle fiamme. Per molte ore gli insorti sono padroni di vaste aree di Lhasa. La Polizia Armata è costretta sulla difensiva e non ha il coraggio di avventurarsi nelle zone degli incidenti più gravi. Le immagini riprese dalle telecamere dei poliziotti e da quelle che controllano ogni crocevia della città, fanno il giro del mondo. Il Tibet, e quanto avviene a Lhasa e/o in India, è al centro dell’attenzione dei media e dell’opinione pubblica internazionale. Il 15 marzo riprende, dal villaggio indiano di Dehra, la nuova fase della “Marcia Verso il Tibet” mentre a Lhasa continuano gli scontri e le manifestazioni. Dal tardo pomeriggio la Polizia Armata e l’esercito cominciano a ristabilire il controllo sulla città grazie a decine di autoblindo e numerosi carri armati. Viene lanciato un minaccioso ultimatum a chi resiste ancora. Dovrà arrendersi entro la mezzanotte del 17. Chi non lo farà sarà trattato “senza misericordia”. Nei giorni seguenti a Lhasa si spengono i principali focolai della rivolta, ma insorgono decine e decine di località del Kham e dell’Amdo, oggi incorporate nelle province cinesi del Quingai, del Sechuan e del Gansu. A migliaia i tibetani scéndono in piazza sventolando la loro bandiera nazionale, chiedendo libertà e indipendenza. A Bora (area del Kham incorporata nel Gansu), un gruppo di uomini a cavallo entra nel villaggio, occupa la stazione di polizia, ammaina la bandiera rossa e la sostituisce con quella tibetana. E’ casualmente presente un cineoperatore che riprende tutto e quelle immagini hanno una copertura mediatica inimmaginabile. La seconda metà di marzo e le prime settimane di aprile sono un incubo per il governo di Pechino, preso alla sprovvista da questo crescendo di problemi. Non solo da quanto succede in Tibet. Anche in India (dove la “Marcia” continua e i tibetani manifestano ovunque tentando in più occasioni di dare l’assalto all’ambasciata cinese di Nuova Delhi) e nelle principali città del mondo in cui si susseguono cortei, fiaccolate, comizi a favore della causa tibetana. A Vienna, un manifestante riesce a issare la bandiera del Tibet indipendente su di un balcone della legazione diplomatica (dopo aver strappato quella cinese). Ma soprattutto, per la prima volta nella sua storia, Pechino si trova a subire pressioni autentiche da parte di governi, parlamenti, uomini politici esteri che gli chiedono con una determinazione inusuale, di aprire al più presto negoziati con il Dalai Lama. Infine inizia la via crucis della povera fiaccola olimpica costretta a sfilare tra imponenti misure di sicurezza e, soprattutto a Londra e Parigi, duramente contestata da vaste folle che reclamano la libertà del Tibet (e degli altri territori occupati dalla Cina) oltre che il rispetto dei diritti umani, politici e sindacali. Il governo cinese risponde con la repressione dura e attaccando violentemente il Dalai Lama definito “serpente dal morso velenoso”, “lupo travestito da monaco”, “reazionario mercante di schiavi” e accusato di essere l’ispiratore delle rivolte in Tibet. Per settimane questa è la posizione ufficiale di Pechino ma oggi, 25 aprile 2008, l’agenzia ufficiale “Nuova Cina” parla di imminente ripresa dei colloqui tra un inviato del Dalai Lama ed esponenti governativi cinesi. Vedremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni quale sarà l’effettiva portata di questa decisione. Se si tratterà, come mi sembra probabile, solo di un gesto propagandistico dettato dalla pressione internazionale e dal timore di un’ulteriore esplosione di Lhasa quando la fiaccola olimpica transiterà per il Tibet e la sua capitale (19, 20, 21 giugno), oppure se tutto quello che è successo ha in qualche modo incrinato le monolitiche chiusure degli autocrati di Pechino. Se ha prodotto una sia pur minima breccia in quella “muraglia” di alterigia, durezza, sicumera, arroganza, che da sempre li caratterizza. Però una cosa è certa. Si trattasse anche solo di un gesto diversivo, di un espediente per riordinare le idee e uscire senza ulteriori ammaccamenti da quella che sempre più tende a prefigurarsi come una vera e propria “trappola olimpica”, la mobilitazione ha pagato. La lotta, il sacrificio, l’abnegazione di migliaia e migliaia di tibetani -dentro e fuori il Tibet- hanno pagato. Il coraggio di sfidare l’occupante cinese e di infliggergli un colpo duro, sia all’interno dei suoi confini sia fuori, ha pagato. E che sia stato un colpo duro lo dimostrano, non solo le dichiarazioni da poco battute da “Nuova Cina” ma anche e soprattutto il ricorso che Pechino è stato costretto a fare, obtorto collo, al nazionalismo. A quelle folle cinesi a cui si è chiesto di manifestare contro la “cattiveria” della stampa occidentale rea di difendere i tibetani, contro l’insulto portato all’immagine della Cina attaccando la fiaccola e facendola più volte spegnere a Parigi, contro i governi esteri rei di prendere le difese degli ingrati barbari del Tibet a cui la Cina ha regalato modernità e sviluppo economico. Si dovrebbe riflettere con attenzione su questo aspetto. E’ forse il segno più evidente di quanto doloroso sia stato il colpo per Pechino. I suoi dirigenti temono ogni movimento di massa. E infatti hanno, sin dall’inizio, messo paletti ben definiti alle manifestazioni nazionalistiche. Di tutto necessitano, tranne del diffondersi di un sentimento xenofobo tra la loro popolazione. Sentimento xenofobo che nei rapporti politici ed economici con il mondo esterno gli creerebbe molte più difficoltà della pur forte protesta tibetana. E alimenterebbe quella paura della Cina che già serpeggia in aree significative delle opinioni pubbliche internazionali (anche asiatiche). Eppure, ciònonostante, Pechino ha dovuto giocare questa carta perché, mai come in queste settimane la sua immagine è appannata, contestata, criticata. Quindi, semaforo verde all’interno alle manifestazioni nazionalistiche (il più possibile controllate) mentre all’esterno, dopo Parigi, si sovvenzionano lautamente le comunità cinesi perché facciano da contorno plaudente alle restanti tappe della torcia olimpica. Secondo il dissidente Wei Jingsheng, solo negli USA, l’ambasciata di Pechino ha speso circa mezzo milione di dollari per finanziare il viaggio e il pernottamento di migliaia di cinesi a San Francisco, in occasione dell’arrivo della torcia. Questi sono dunque i fatti. Fatti che dovrebbero far riflettere. In modo particolare i molti che si erano affrettati a condannare la mobilitazione dei tibetani. Quelli per cui non servivano le manifestazioni che anzi, avrebbero fatto peggiorare ancora più le cose. Le anime belle per le quali con la Cina serve moderazione e le critiche, se proprio si devono fare, devono essere discrete, flautate, centellinate, sussurrate nelle orecchie dei signori di Zhongnanhai. Quelli che bisogna stare attenti al miliardo e passa di cinesi che possono fare a pezzi i tibetani. Quelli che si deve dare tempo al tempo e, nel “frattempo”, rimanere zitti e sperare. Magari nei miracoli del mercato e del consumismo. E invece le cose non stanno in questo modo. Con il silenzio, la non azione, le cautele ossessive, le concessioni unilaterali non si va da nessuna parte. Soprattutto quando si tratta di dialogare con un potere coriaceo come quello cinese. “Pechino, 25 aprile 2008. Agenzia Nuova Cina. Secondo la testimoninaza di un anonimo funzionario governativo, un rilevante dipartimento del governo centrale avrà nei prossimi giorni contatti e consultazioni con un rappresentante privato del Dalai Lama”. Forse, anzi probabilmente, si tratta solo di una trappola. Un modo per avere una “tregua olimpica”. Perché nulla turbi il grande bagno di folla entusiasta che Pechino si appresta a mettere in scena a Lhasa quando, per l’arrivo della torcia, farà convergere nella capitale tibetana decine di migliaia di cinesi da tutta la Cina. Forse. Anzi probabilmente. Però anche se così fosse, rimane il fatto che questi incredibili mesi di marzo e aprile hanno inviato un messaggio forte e chiaro a chi governa la Repubblica Popolare. E a tutto il mondo. Un problema tibetano esiste. Ed è un problema spinoso. Pechino in qualche modo ha ammesso di averlo ricevuto. Per il resto si vedrà. Fonte: Lettera22 26 aprile 2008

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento