Dal fronte al porto. I fantasmi di Mersin


Federica Iezzi - Nena News


La città turca è diventata uno dei principali punti di imbarco per migliaia di siriani che vogliono raggiungere l’Europa.


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Non c’è più carbone da bruciare nella tenda di Adnan B., che vive con la sua famiglia nell’area attorno ad al-Raqqa, roccaforte siriana dell’Isis. Sabeen, sua moglie, raccoglie senza fermarsi le poche cose accumulate in due anni. Coperte e vestiti per i cinque figli, il più piccolo, Firas, di soli 3 mesi. Adnan dice che presto proveranno ad attraversare la porta turco-siriana a Kilis. «Lì è più facile. 75 dollari a testa e i poliziotti turchi ti fanno entrare, senza fare domande». Poi in autobus fino alla città portuale turca di Mersin. Nei dintorni di Tartus li aspettano con i documenti e la promessa dei posti sul mercantile. Adnan racconta che ha lavorato nelle raffinerie di petrolio in mano allo Stato Islamico, a sud di al-Raqqa. I due figli più grandi hanno lasciato una scuola che non c’è più. Raccolgono plastica e alluminio sulle strade. Uno dei lavori più quotati tra i giovanissimi.

«È in questo modo che siamo riusciti a mettere da parte un po’ di soldi. Voglio che i miei figli studino, così come ho fatto io nella mia Homs». È così che ha inizio il lungo cammino di centinaia di rifugiati siriani. Seguiamo fino a Mersin sulla polverosa D400, decine di camion carichi di merci, che ci trascinano agevolmente fino all’entrata del porto commerciale. Alti cancelli ne disegnano il perimetro. Nessuno, al di fuori delle merci, entra se non con permessi o dopo ore di persuasivi colloqui, con la polizia che vigila i movimenti. Al di fuori, un lungomare alberato e ben curato sembra nascondere vite e desideri. Le voci dai mercantili confermano i dati dell’Alto commissariato delle nazioni unite per i rifugiati: da Mersin sono partite navi fantasma che hanno trasportato una parte dei 170 mila migranti arrivati in Italia negli ultimi 14 mesi. Il nuovo gioco dei trafficanti è utilizzare imbarcazioni senza conducente, su nuove rotte che puntano verso l’Europa. 

Ogni settimana si ripete lo stesso dramma della Blue Sky e della Ezadeen: navi utilizzate per il trasporto di bestiame, intercettate dalle marine europee, con la stiva carica di almeno 700 anime, in fuga dall’orrore della guerra in Siria. Un gruppo di uomini siriani ormai da anni residenti in Turchia riferisce che Guven H., un turco di Tarsus, fino a qualche mese fa pianificava le infinite traversate a bordo di gommoni e barche da pesca, fino alle coste senza legge della Libia, per siriani, afghani, pakistani e iracheni. Oggi l’obiettivo è l’Europa. In un quartiere non lontano dal lungomare di Mersin, un’intera strada è fiancheggiata da stabilimenti diretti da siriani, che sono riusciti ad attraversare il confine di Mursitpinar. Negozi di barbieri, generi alimentari, ristoranti, bar e eleganti edifici che ospitano scuole private e centri comunitari. La stanza dove riceve Guven è lì. Oggi personaggi come Guven hanno uffici non molto lontani dal porto commerciale di Mersin. La chiamano «zona dei grandi container».

È al di là della strada del porto. Ed è qui che i siriani aspettano le prossime partenze. In alloggi di fortuna, mangiando quello che trovano e dormendo su coperte riposte disordinatamente, nei sacchi che trasportano come bagagli. Vicino i cancelli, presidiati dalla polizia di frontiera turca, un siriano curdo di Kobane mangia dolci fritti presi da un ambulante. È lui il contatto tra i rifugiati siriani e il turco che organizza i viaggi in mare nei mercantili. Gli chiediamo quando parte la prossima nave con i profughi siriani che va in Italia. Risponde in un arabo stentato che non ci sono navi che vanno esclusivamente in Italia, perché dai mercantili le piccole imbarcazioni vengono lasciate in mare e la rotta la decidono le onde. Non c’è chi conduce.

Qual è il prezzo che un bambino siriano deve pagare per scappare dalle bombe? E i documenti? Daman L., il curdo siriano di Kobane ci dice che «il viaggio costa 4000 dollari e i bambini non pagano». Per i documenti il servizio è completo: i passaporti li preparano loro per poco più di 1000 dollari. Gli chiediamo ogni quanto tempo le navi partono. Ci risponde «Sempre». Normalmente i rifugiati vengono trasportati attraverso vecchie chiatte sui grossi mercantili, ormeggiati a Mersin. Possono aspettare lì anche giorni prima di salpare. Bisogna arrivare al numero giusto di persone per partire, altrimenti per i contrabbandieri di esseri umani le spese diventano troppe, rispetto alle entrate. E qual è questo numero giusto? «400-500». Per giorni la stiva della nave dunque diventa una casa per i profughi. Gli accordi sono che una volta entrati nelle acque territoriali di un Paese, il capitano e l’equipaggio del mercantile siano tenuti a contattare le autorità della Marina locale, con una chiamata di emergenza, e poi debbano abbandonare l’imbarcazione carica di profughi alla deriva, con il pilota automatico.

Da quel momento non se ne curano più e quegli otto chilometri dalla costa, fanno la differenza tra la vita e la morte per centinaia di persone, per decine di bambini. Le cifre ufficiali dell’ultimo anno parlano di 20 mila rifugiati siriani entrati in Turchia che alloggiano in 22 campi governativi e in centinaia di campi spontanei, buttati senza identità e senza localizzazione, lungo i 900 chilometri di confine turco-siriano. Fame, povertà, alte tasse di locazione, sfruttamento del lavoro, nessuna assistenza medica ne servizi scolastici: è questo che trovano i siriani in Turchia. E allora la soluzione diventano vecchie navi da carico o grossi cargo dismessi. I mezzi per il trasporto di migranti verso l’Europa. Nel solo mese di novembre, 3.000 siriani hanno raggiunto l’Italia via mare, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

Le navi stazionano nei porti del sud-est della Turchia, ancora oggi punti di contatto con i traghetti che partono dal porto di Lattakia, in Siria. Le rotte per l’Europa passano via Cipro e Creta. L’obiettivo degli scafisti sono ancora di più i soldi e sfruttare le speranze dei rifugiati siriani, dimenticando solo, ma solo per ora, i migranti dell’Africa sub-sahariana.

Fonte: http://nena-news.it

30 gennaio 2015

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