Quarantott’ore a Kabul


Emanuele Giordana - Lettera22


Reportage. In volo da Herat a Kabul e poi il dipanarsi di una lunga giornata nella capitale afgana tra attentati, proclami, ospedali, vita più o meno normale al bazar. Al centro della guerra che si è trasformata in una palude che risveglia poco interesse. E che nessuno sembra aver voglia di raccontare.


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Quarantott'ore a Kabul

In gergo si chiama “volo tattico”. L'areo oscilla e si piega con un variazione di rotta che fa venire mal di stomaco ma evita che qualche oscuro missile si diverta al tiro al piccione. Possibilità abbastanza remota ma non da escludere e comunque abbastanza difficile che vada a buon segno per via dei deviatori automatici che “spiazzano” i siluri da terra e li fanno inseguire altre fonti di calore. Il C-130, l'aero militare da carico che ospita, oltre a noi, soldati e masserizie nell’ampio ventre metallico, scende sulla pista di Herat per sbarcare parte della truppa e un grosso container di munizioni. C'è tempo per un caffè mentre gli uomini dell'areonautica scaricano casse e zaini del contingente venuto dall’Europa a dare il cambio ai commilitoni.

Le sorprese di Herat

L'aeroporto di Herat, la terza città dell'Afghanistan, è abbastanza piccolo e fiancheggiato da una caserma dove c'è un gran via vai. Italiani soprattutto, ma anche spagnoli e americani. Distingui questi ultimi per la mimetica con colori violacei e per le teste immancabilmente rasate a zero. Ma non portano insegne gli americani: né sulle divise né sui mezzi, i potenti e schiacciati Humwee a prova di bomba che prendono l'ultimo sole tiepido dell'inverno e che mescolano al color ocra della verniciatura l'opaca sabbia dei deserti afgani. Niente insegne Nato o un modo per capire se questi uomini, che solo qualche volta espongono una minuscola bandierina stellestrisce, fanno parte del contingente multinazionale Isaf/Nato, coordinato da Bruxelles, o rispondono al Centcom, il comando con sede a Tampa, in Florida, che esegue gli ordini della catena di comando di Enduring Freedom, la coalizione dei volenterosi messa assieme da Washington dopo l'11 settembre e che scatenò l'inferno sopra il paese governato dai talebani. Ma questa confusione nelle divise e nei mezzi, rispecchia forse anche una scelta politica. Che compromette in maniera inequivocabile la possibilità di distinguere chi fa cosa: gli americani di Enduring Freedom o gli uomini della forza multinazionale Nato forte di 37 adesioni dall'Albania alla Germania?
La prima sorpresa, mente ci offrono un caffè in piccolo ristoro improvvisato – dove, se si fa festa, si stappa anche qualche birra – è scoprire che qui le cose non vanno esattamente come ce le raccontano sulla stampa o sui dispacci militari. E se i dispacci militari sono per vocazione sempre un po' reticenti, la stampa più che altro non c'è a vedere come funziona questa guerra. Bizzarrie mediatiche nell'era della globalizzazione che tutto dovrebbe permettere di sapere in tempo reale e digitale. Qui invece, ma un po' in tutto l'Afghanistan, è così: la guerra non la racconta nessuno. E solo affidandosi a qualche confidenza, mormorata a mezza voce tra una sigaretta e un caffè, scopriamo che l'aeroporto è sotto tiro quasi tutte le sere. Non, come invece sapevano, per qualche attacco sporadico. Suona l'allarme e via, tutti sotto degli improvvisati bunker di cemento armato verdastro che devono essere stati montati da poco. Non che i missili, tirati da qualche decina di chilometri di distanza, facciano mai danno nell'aeroporto. Ma non si sa mai. Chi sia a sparare poi, non è certo. “Avvertimenti”, dice un graduato. Piccoli missili che si schiantano a ridosso della pista quando cala il buio. Una volta tirano da lì, un'altra da là, dicono indicando il deserto piatto dell'Afghanistan occidentale. “Forse – azzarda un soldato – solo qualche contrabbandiere che, in questo modo, indica che da quella parte non ci dobbiamo andare a ficcare il naso”. Più che talebani, trafficanti. Più che guerra, commercio illegale. “Avvertimenti” appunto, in una zona sempre più calda perché vicina al confine iraniano. C'è il contrabbando dunque che la fa da padrone in questo paese senza legge da trent'anni ma c'è anche la tensione di quel che potrebbe accadere domani dietro una frontiera dove i persiani, che temono un attacco americano più volte vagheggiato, si stanno preparando a utilizzare l'Afghanistan come retrovia per dar noia al nemico. Attaccherete Teheran (o gli insediamenti nucleari del Sud)? Bene, noi colpiremo in Afghanistan. In questa guerra al rallentatore, poco raccontata e che sembra essersi arenata in una palude, si agitano fantasmi che si nascondono oltre frontiera. E non solo quella pachistana che fa da retrovia ai talebani. Ma adesso l'aereo è pronto. Tra qualche ora saremo a Kabul.

Ossessione sicurezza

Le pratiche burocratiche all'aeroporto di Kabul sono rapide. Dopo le cinque l'autorità civile chiude gli uffici e non vista più i passaporti. Così che, per una di quelle bizzarrie tipiche di un paese governato per metà dai civili afgani e per l'altra metà dai militari occidentali, si entra a Kabul senza alcuna verifica del visto e dei documenti. Dall'aeroporto si srotola la striscia d'asfalto più pericolosa in città. Alcuni chilometri, inizialmente molto dissestati, sino all'anello di Massud, una rotonda che smista il traffico sino al centro. E' il luogo preferito per gli attentati. Né si può proceder in gran fretta per via delle buche. E l'unica consolazione piacevole resta un paesaggio di tappeti stesi ad asciugare in una sorta di lavanderia all'aperto che costeggia i due lati della strada. Una volta, ricordano i vecchi viaggiatori, i tappeti venivano srotolati lungo le strade per far si che il passaggio dei pesanti camion commerciali li “invecchiassero”. Adesso ci pensa la polvere spessa che, in questa capitale senza quasi asfalto, si leva da vicoli e stradine appena la stagione diventa secca – cioè quasi sempre – e si alzano i venti della montagna che spazzano la città e sollevano una coltre spessa di polvere e smog. Che, in certi giorni d'inverno, arriva a oscurare il sole e che, di primo mattino, sembra l'edizione afgana della nebbia della val Padana.
La strada si infila dritta nel quartiere delle ambasciate: un fortino a cielo aperto. Quella americana assomiglia a un fortilizio eretto negli anni della speculazione edilizia di qualche città dell'Europa del Sud. Dietro un muro di cemento armato, in una strada che, per essere percorsa, richiede una gimcana tra sacchetti di sabbia, guardiole e civili armati di mitra e occhiali scuri, si erge l'edificio diplomatico a cui è stato affiancato un triste caseggiato dallo stile anonimo tipico dei palazzoni di periferia dove, presumibilmente, vive il personale civile. Ma non c'è una finestra aperta ne un fiore sui davanzali riprodotti in serie da un ingegnere senza fantasia. Alla fine della strada su cui si affaccia questo enorme bunker che ha praticamente chiuso l'ingresso dell'ambasciata tedesca, c'è la legazione italiana cintata da un possente muro di cemento armato. E poco più in là c'è una caserma che sembra un avamposto corazzato della seconda guerra mondiale per via di certi muri slabbrati e lamiere contorte sui tetti delle casematte militari. In quella che chiamano la “zona verde” di Kabul, una riedizione di quella irachena, si deve vivere come in un fortino assediato che guarda un ignoto deserto dei Tartari. E l'ossessione della sicurezza sembra da una parte aumentare il distacco tra gli occidentali e il mondo reale degli afgani, che di protezione non ne hanno nessuna, e dall'altra premiare la strategia del terrore messa in atto dai talebani: negli ultimi mesi sono infatti spaventosamente cresciuti gli attentati kamikaze in città. Basta aspettare e l'attentato arriva

Eserciti pubblici e milizie private

Ce ne tocca uno la mattina dopo il nostro arrivo. Siamo nel cortile del Kabul Inn, un albergo dai prezzi contenuti nel quartiere commercial-residenziale di Sharenaw, dove dormicchiano giornalisti e spioni, agenti segreti e rari commercianti in cerca di fortuna. Alle otto in punto si ode un boato che fa tremare i vetri. Un'auto si è fatta esplodere contro una colonna di Humwee nel quartiere delle ambasciate ma il sordo boato corre attraverso l'intera capitale. La gente non sembra farci molto caso come se pensasse: “E' andata, questa volta l'ho scampata” e via in bici nel traffico caotico del primo mattino. Ci vuole quasi mezz'ora per arrivare sul posto. Ci sono già i soldati afgani e quelli americani a presidiare la zona. Una gru militare gigantesca entra fragorosamente nella via mentre le divise tengono lontani i curiosi. I vetri delle case sono in pezzi e pare ci siano stati solo dei morti civili, oltre al kamikaze. Come sempre, la “sicurezza” ha funzionato per i soldati nei loro veicoli a prova di bomba. Ma non per i cittadini di passaggio. Per loro – gli “effetti collaterali” delle stragi talebane – è andata male come al solito.
Un soldato stellestrisce con lineamenti latini se la prende con due ragazzotti. Li intimidisce prendendoli a male parole e agitando la mitraglietta. Scenario quotidiano. Nel traffico della città, guai ad essere davanti a una colonna di soldati. Soprattutto se americani: prima suonano, poi vi speronano. Un atteggiamento arrogante che, fino all'anno scorso, contraddistingueva un po' tutti i militari della forza multinazionale. Ma poi la Nato pare abbia fatto filtrare il messaggio che bisogna cambiare passo con i locali. Niente occhiali a specchio e modi spicci. Cortesia insomma. Ma non tutti seguono il buon esempio. Notiamo un paio di barbuti in abiti civili che assomigliano a dei guerrieri afgani. Ma l'accento è inconfondibilmente del New Jersey. Agenti dell'intelligence o soldatini degli oltre sessanta corpi privati prodotti dall'ossessione sicurezza?
Nell'ufficio del capo della polizia di Kabul, il generale Ali Shah Paktiawal, un corpulento pashtun che incute un certo timore, ce lo confermano. Qualcosa come 25 o 30mila soldati “privati” compongono il terzo esercito dell'Afghanistan dopo quello nazionale e le forze della Nato, che contano ciascuno su circa 40mila soldati. Ce n'è per tutti i gusti: americani, europei, afgani, arabi. Chissà forse anche qualche sudafricano, i mercenari migliori del pianeta. Il governo Karzai vorrebbe porre un freno a questa industria che fattura qualche milione di dollari se è vero che, contro i 50-70 dollari al mese di un soldato afgano, questi “bravi” ne guadagnano anche 2mila. Nell'agosto scorso un “esperto” della sicurezza britannico è stato fatto fuori mentre trasportava 200mila dollari cash nel giubbotto. Altro che talebani. Era un regolamento di conti in un mondo dove, dice il capo della polizia di Kabul, fioriscono sequestri a scopo di estorsione, furti, traffico d'armi. Altro che sicurezza. L'esercito privato sta creando problemi e ferisce l'orgoglio di gente come il generale Paktiawal adesso incaricato di rimettere le carte in regola con controlli spietati sulle licenze e sugli arsenali privati.

Confusione pericolosa

Usciti dall'ufficio di Ali Shah guardiamo l'orologio. Sono già le undici e ci si può rilassare. La contabilità statistica degli attentati parla chiaro: l'orario buono è tra le sei e le dieci del mattino e dunque quello di stamani era nella media. Veniamo poi a sapere che l'autobomba, una Lexus, era stata segnalata già dalla sera prima nei continui messaggi che l'intelligence multinazionale si scambia di continuo. Uno di questi messaggi diceva che la Lexus (molto spesso si usano le Corolla, mezzo favorito dal fatto che ce ne sono a decine), stava girando “probabilmente in cerca di un obiettivo”. Pare che questi martiri di Dio, molto spesso giovani pachistani delle aree tribali o arabi in trasferta – più raramente afgani anche se il loro numero è in crescita – vadano un po' alla cieca finché non trovano come e cosa colpire: di solito convogli corazzati o, per fare più danno, pullman della polizia su cui, come spesso accade, c'è sempre qualche civile. E’ accaduto ad esempio agli inizi del dicembre scorso a Chihulsutoon, zona sudoccidentale della capitale. L'autobomba ha colpito un minibus di militari dell'esercito nazionale ma ha ammazzato diversi passanti e ha fatto decine di feriti mentre l'esplosione faceva saltare anche una bombola di gas in uno dei negozietti affacciati sulla strada. Quei minuscoli bazar che vendono dai pistacchi alla biancheria e che sono una delle poche attività commerciali del paese.
Eppure questa strategia del terrore talebano, che secondo alcuni è anche il segno della loro debolezza sul piano dell'incapacità di avanzare territorialmente oltre il Sud del paese sotto il loro diretto controllo, li penalizza solo in parte. Nella guerra per il consenso, se i talebani perdono qualche punto quando uccidono vittime inermi, anche la Nato e le forze di Enduring Freedom ce la mettono tutta. E per di più non si riesce mai a sapere se i bombardamenti – un'altra causa delle molte stragi indiscriminate di vittime civili – sono da imputare alla Nato o alla coalizione a guida americana. Una confusione che sta nuocendo soprattutto alla Nato/Isaf, una missione militare che – dicono i sondaggi – e nonostante tutto, gode ancora dell'appoggio della maggioranza (con percentuali decrescenti) della popolazione afgana. Un caso eclatante si verifica proprio mentre siamo a Kabul. Questa volta accade lontano dalla capitale: nel Nuristan, la magica regione orientale dove si vuole abitino i discendenti di Alessandro Magno e dei suoi soldati che da qui passarono 300 anni prima della nascita di Cristo.
La notizia la recuperiamo con difficoltà perché le agenzie internazionali, che hanno i loro stringer a Kabul (i collaboratori locali che raccolgono le notizie), rilanciano una versione emendata che parla di una dozzina di morti: operai di un cantiere stradale bombardati “per errore” da un aereo multinazionale. Solo le agenzie nelle lingue locali dari o pashto, che citano fonti in loco, fanno lievitare il macabro bilancio ad almeno 25 morti. “Ho contato le bare”, spiega un malik locale, Taj Mohammad, che, come ogni capo tribale che si rispetti, sa leggere e scrivere. Il fatto è che le informazioni su chi avesse commesso l'errore era impossibile ottenerle. I funzionari della coalizione a guida americana dicevano di non saperne nulla e che “avrebbero indagato”. La Nato/Isaf invece ammetteva di aver bombardato la zona ma non sapeva dire esattamente….quando lo avesse fatto.
Questa confusione militare non sembra apportare grandi benefici a un paese che, a sei anni dal 2001, quando i talebani furono cacciati e il vuoto politico venne colmato da mirabolanti promesse, non vede grandi miglioramenti. E invocare la sicurezza come condizione sine qua non per lo sviluppo è un discorso che non regge. “In Europa – spiega Orzala Ashraf, una donna impegnata nella battaglia per il rispetto dei diritti di genere – mi chiedono sempre cosa penso dei soldati stranieri. Il punto non è questo. Il punto è che non ci può essere una soluzione solo militare allo sviluppo di questo paese”. Orzala ha probabilmente ragione. Nelle zone dove la guerra non c'è la ricostruzione mostra la corda. E si prepara così il terreno per il ritorno al potere delle vecchie consorterie, si chiamino talebani o signori della guerra o “narcotalebani”, un'efficace termine coniato dal giornalista della Radio televisione italiana Riccardo Iacona. “In Afghanistan – dice – tutti sembrano essersi dimenticati che questo paese produce il 90% dell'oppio del pianeta. Come si può pensare che ciò non influisca e alimenti la guerra?”
L'Afghanistan si sta “irachizzando”? La vulgata che va per la maggiore dovrebbe avere un'altra lettura. L'Afghanistan sta diventando come la Colombia, per metà governata da ex rivoluzionari trasformatisi in alleati dei narcotrafficanti, per l’altra metà diretta da un governo fragile e compromesso.

Pane caldo, kebab e una guerra di comunicati

Anche a Kabul bisogna pur mangiare. Per gli stranieri però i locali pubblici sono off limits. Sconsigliati insomma. La scelta si riduce dunque a cene che non hanno nulla da invidiare a quelle in un qualsiasi hotel di lusso in giro per il mondo. Perché anche a Kabul sono sorti questi centri commerciali, un po' Hong Kong un po' Dubai, dove all'ultimo piano c'è l'immancabile terrazza con buffet continentale. Ma noi – anziché da questi locali che puzzano di riciclaggio e che come ovunque, da Pristina a Peshawar, sono proprietà di qualche narcotrafficante o contrabbandiere di armi – saremmo più attratti dai localini che espongono kebab di montone o di pollo, l'uno in fila all'altro in qualche stradina laterale. L'accoppiata vincente di queste carni alla brace e diffuse un po' in tutto il mondo musulmano, è una sorta di pane lungo che si cucina in dei bizzarri forni a pozzo. Caldo e fragrante è un cibo sopraffino il cui nome si declina in almeno quattro o cinque nomi lingue diverse a seconda delle zone e delle parlate. Il pranzo e la cena si condiscono il più delle volte con tè verde, una sorta di bevanda nazionale che in passato si consumava nei bicchierini francesi duralex, un prodotto che aveva anticipato la globalizzazione di qualche decennio. Diffusissimi negli anni Settanta anche gli infrangibilissimi duralex non sono però riusciti a superare tre decenni di conflitti. Così adesso ci son tazze probabilmente made in China, un paese che con l'Afghanistan ha un microscopico confine di qualche chilometro ma che è ben presente, anche se discretamente, nel commercio e forse anche negli investimenti. Scommessa geopolitica che interessa anche Pechino.
Terminato il tè è ora di ritornare a darsi da fare. Ad esempio con una visita agli uffici di Al Jazeera, la tv del Golfo i cui locali furono bombardati durante la cacciata dei talebani. Si disse allora che gli americani lo avessero fatto apposta per punire questi televisivi arabi che erano tra i pochissimi rimasti a Kabul a descrivere come andava questa guerra ai talebani e che davano conto, già allora, dei bombardamenti scarsamente chirurgici che facevano vittime civili. O che “sbagliavano” obiettivo, come nel caso di Al Jazeera. Quel che colpisce della sede della tv araba, un palazzo moderno e un po' barocco in una via elegante, per quanto possa essere elegante una via di Kabul, è che non ci sono guardie armate alla porta. Né dentro. O almeno non visibili. Niente sacchetti di sabbia, filo spinato, muraglioni in cemento e tondini di acciaio. All'interno, i colleghi di Al Jazeera, che sono ben più al corrente di noi delle cose afgane, ci spiegano che sull'attentato della mattina c'è una diatriba. E che le rivendicazioni spesso arrivano a loro, come ad altre agenzie locali afgane, assai prima che ai media occidentali. Di che si tratta?
Si tratta del fatto che l’attentato del giorno lo rivendicano…in due. Il portavoce di Gulbuddin Hekmatyar, signore della guerra che, secondo alcuni, sarebbe anche dietro la strage degli innocenti avvenuta qualche settimana prima nel Nord, a Baghlan (una zona controllata da lui e lontana dalle aree del conflitto nel Sud), e negata dai talebani. Ma non passa qualche minuto, che chiamano anche i talebani. E rivendicano l'attentato. Allora il portavoce dell’Hezb-e islami – il partito di Hekmatyar – si rifà vivo e rilancia. Spiegando che non solo è “cosa nostra” ma che ne hanno le prove, poiché il suicida ha anche una sua “scheda tecnica”: si chiama Ahmajan e viene da un sobborgo di Kabul. Carta canta insomma. Aggiunge, il portavoce di Glbuddin, che d’ora in poi l'Hezb cambierà strategia e rivendicherà ogni azione cosa che non avrebbe mai fatto in passato. Guerra di guerriglia tra la guerriglia. Così, se c’era qualche dubbio sulle divisioni nel fronte insurrezionale, ecco una prova dello scontro interno.

Strategie e divisioni

Effettivamente gli attacchi suicidi a Kabul sono in costante aumento. In Afghanistan sono stati oltre 130-140 nell'intero 2007 e con un bilancio di vittime in costante crescita. Inoltre, il fatto che in questa offensiva sia coinvolta sempre più la capitale fa pensare a una strategia mirata. Ma se da una parte l'attacco costante al cuore del paese, con obiettivi che essenzialmente sono militari (nazionali o internazionali) o istituzionali (ministeri etc), sembra voler indicare che il cerchio si stringe, la guerra a colpi di martirio può anche raccontare di un impasse sul piano territoriale visto che, in questi anni, se i talebani hanno conquistato almeno due province e ne minacciano seriamente diverse altre, l'assalto alla capitale appare militarmente inverosimile. Benché il Senlis Council, un autorevole think tank con sede anche a Kabul, abbia appena rilevato che, secondo le loro indagini, i talebani controllerebbero ormai più della metà del territorio afgano, la strategia del terrore sembra soprattutto saldarsi a una guerra che i talebani stanno cercando di vincere sul piano psicologico, minando alla base quel senso di sicurezza promesso dalla Nato che di fatto non si realizza. Nemmeno nella capitale, perlomeno tra le sei e le dieci del mattino. In poche parole, se oltre quel 50% del territorio i talebani non vanno (e in molte zone non riescono a tenerselo che per qualche giorno), meglio dare il segnale che la guerriglia può colpire ovunque e comunque. Con gli uomini bomba. Ma non tutti sono d'accordo.
A Kabul si dice che in realtà il fronte interno della guerriglia è molto frazionato: ci sono gli uomini di mullah Omar, la vecchia guardia afgana che non sarebbe mai stata molto propensa a usare i kamikaze come strategia combattente. Sarebbe questo, dicono i bene informati, il segmento più prossimo a un'eventuale trattativa con Karzai. Trattativa forse già in corso per via sotterranea e che non esclude l’intelligence occidentale. I qaedsiti, gli stranieri, o l'ala talebana più vincolata alle vecchie strategie di Osama, sarebbe invece quella che non vuole trattare e che usa i kamikaze come arma vincente. Quali e come siano i rapporti tra queste due ali del movimento dei turbanti è difficile dire. Infine c'è la fazione che fa capo al già citato Gulbuddin Hekmatyar, uomo che – com'è suo costume – è stato antitalebano, filotalebano e adesso è nuovamente in rotta con la guerriglia islamista di Omar. Come prova la doppia rivendicazione (di Hekmatyar e dei talebani simultaneamente) dell'attentato di cui abbiamo raccontato. Ma dividere il movimento insurrezionale in tre grandi ali (litigiose) sarebbe riduttivo. Gli iraniani si starebbero muovendo finanziando una parte della guerriglia per avere un braccio armato preventivo in caso di guerra americana all'Iran. Ma si dice anche che gli americani starebbero allevando dei “loro” combattenti antiiraniani. Rumor per ora senza conferme. Dei “si dice” senza riscontri ma che comunicano uno scarso buon umore in questo fine serata a Kabul

Visita in ospedale

Visto che sta calando il buio e non è saggio farsi una passeggiata in città, il tempo stringe. Resta un'oretta per passare all’ospedale di Emergency. Non ci sono i feriti della bomba mattutina ma c’è ancora un poveraccio colpito qualche giorno prima a Paghman dall’esplosione che ha ucciso un soldato del contingente italiano, il maresciallo Daniele Paladini, e altri civili del posto, bambini compresi. Tutti vittime di un martire che si è fatto esplodere. I medici ci fanno strada in una saletta dove riposa Mustafa, un negoziante che la guerra la conosce fin troppo bene: anni fa è saltato su una mina e ha perso due dita della mano e una gamba. Adesso è tutto ustionato ma si fa fatica a capire cosa gli ha arrecato maggior danno. Sotto il lenzuolo il suo corpo assomiglia a quello di un serpente scarnificato. Non ricorda nulla dell’esplosione che lo ha ferito. Parla a fatica e non ci pare il caso di andare oltre. Qualche domanda di rito e un senso di pietà che diventa più forte dell'obbligato cinismo da taccuino. Ma mentre ce ne andiamo notiamo un poliziotto che piantona un talebano ferito. Dorme davanti al letto di Mustafa. Ironia della sorte, i due riposano uno in faccia all'altro. Viene da pensare che, una volta in forze, Mustafa si scaglierà sul sodale dei talebani che gli hanno scarnificato il corpo. Eppure il medico che è con noi ci rassicura: “In questo disgraziato paese – dice – la guerra è un’occasione di lavoro. Non importa da che parte”. E dunque questi due, paradossalmente, potrebbero persino essere parenti. Difficile che litighino visto che lavorano in un cantiere dove l'offerta di lavoro è quella che è, e la scelta è spesso obbligata. Il cantiere si chiama “guerra” e funziona brillantemente da qualche decennio. E inoltre i talebani pagano bene, anche cinque o dieci volte in più dello stipendio che Kabul dà ai suoi soldati. Difficile biasimare questi “manovali” del conflitto.
Quando usciamo è già buio. L'ossessione sicurezza, con le tenebre, diventa spessa come l'aria sempre più polverosa che fatica a ripulirsi coi venti freddi della notte. Con l’arrivo del buio Kabul appare sotto il suo aspetto più spettrale perché la luce elettrica, che viaggia a singhiozzo ed è patrimonio di pochi, è un bene di lusso in questa città che, nelle ore notturne, appare come un presepe si serie B: con i lumi delle candele e delle lampade a petrolio che sembrano l'unica fonte di vita di questa capitale asiatica dove le promesse della ricostruzione non sono nemmeno riuscite a far arrivare la luce elettrica se non nelle nuove magioni di dubbio gusto che affollano i quartieri dei ricchi, percentuale irrisoria e ben protetta della società afgana.
Il dottor Oryakhail, che è il medico afgano responsabile dei finanziamenti italiani all'ospedale pubblico Esteqlal di Kabul, ci ha spiegato che c'è voluto del bello e del buono per fare in modo che il sistema sanitario nazionale si prendesse in carico l'allacciamento alla rete elettrica del nosocomio che, fino a qualche mese fa, andava avanti con un generatore a gasolio a costi insopportabili. Anche questo è un aspetto della battaglia del consenso che la comunità internazionale, troppo occupata della piega militare degli avvenimenti, ha già forse irrimediabilmente perso. La finestra, dice qualcuno, si sta riducendo a vista d'occhio. E per finestra si intende il divario tra aspettativa e disillusione: un tema su cui gli afgani cominciano a interrogarsi chiedendosi se non si stava meglio quando si stava peggio, sotto i talebani o persino sotto i dannati sciuravi, gli odiati sovietici. Prima di fare questo salto di qualità, che trasformerebbe tutti gli afgani in nemici dell'Occidente, forse c'è ancora un po' di tempo: se la “svolta politica”, ormai sulla bocca di tutti i governi dei paesi impegnati in Afghanistan, si riempisse di proposte e non solo di vaghi desideri di un cambiamento che non si vede. Se la scelta continuerà invece ad essere quella di un'impossibile vittoria militare e se dell'Afghanistan si continuerà a discutere solo quando, da Roma a Berlino, si devono rifinanziare le missioni militari, la perdita di consenso esaurirà la clessidra sempre più vuota a guardia della finestra tra aspettative e disillusioni.
Mentre il C-130 ci carica per riportarci a casa, è questa l'unica amara riflessione che viene da fare dopo 48 passate nella capitale afgana. Dove l'ultima immagine è quella di Mustafa e del talebano nei letti del medesimo ospedale. Figli entrambi di una guerra che è ormai la prima e per molti l'unica possibilità di coniugare il pasto con la cena per la propria famiglia.

Fonte: Lettera22

01 marzo 2008

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