Betlemme si prepara al viaggio del Papa


Avvenire


«Il Papa potrà passare oltre il muro per venire fino a qui?» Chiede Jaid dall’alto dei suoi otto anni a suo fratello maggiore mentre saliamo sulla collina Dheisheh. Jaid come tanti bambini palestinesi non ha mai visto cosa c’è al di là del muro che chiude Bethlehem.


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«Il Papa potrà passare oltre il muro per venire fino a qui?» Chiede Jaid dall’alto dei suoi otto anni a suo fratello maggiore mentre saliamo sulla collina Dheisheh. Jaid come tanti bambini palestinesi non ha mai visto cosa c’è al di là del muro che chiude Bethlehem. Da quassù si può estendere lo sguardo e vedere a colpo d’occhio la città. Così come la vedrà papa Francesco arrivando in elicottero da Amman. Un manto di case basse interrotto da una barriera grigia che taglia l’orizzonte: è quello il muro della separazione che taglia il destino di Bethelem, che preclude la via per Gerusalemme e per il mondo di chi è nato e vive qui. Intorno, sulle alture sparse come macchie bianche svettano i nuovi insediamenti israeliani sorti dopo l’assedio della Natività. È da quassù che papa Francesco scenderà per entrare nella Terra di Dio.

Alla Basilica della Natività fervono i preparativi per la visita di Francesco. Tra il via vai dei pellegrini stranieri che in questi ultimi anni hanno ripreso a venire numerosi, padre Ibrahim Faltas, economo della Custodia di Terra Santa, è tutto preso dalla stampa dei biglietti per la messa del 25 maggio nel piazzale della Mangiatoia. «Ne abbiamo stampati diecimila» afferma «stiamo lavorando molto per questa messa, perché le richieste sono moltissime e il piazzale non è grande. E questa è l’unica messa che il Papa celebrerà per tutti noi, per i fedeli di Palestina e d’Israele. Vengono dai territori del nord, dalla Galilea da tutta la Cisgiordania, anche da Gaza». Non ci saranno, infatti, pellegrini stranieri, solo cristiani della Terra Santa. Padre Ibrahim, il frate che tutto il mondo aveva visto alzare le braccia per fermare gli attacchi durante i trentanove giorni dell’assedio della Basilica dodici anni fa, non ha dubbi che il momento più importante della visita di papa Francesco sia rappresentato proprio dalla celebrazione a Betlemme: «È certamente questo» ribadisce «il momento più significativo della visita oltre l’incontro al Santo Sepolcro con il patriarca ecumenico Bartolomeo I».

E il significato concreto e simbolico sta già nel gesto stesso di Papa Francesco di aver scelto di entrare in Terra Santa dalla Palestina, da Betlemme, la culla della cristianità e di incontrare qui tutti i fedeli. «D’incontrare qui i cristiani palestinesi di Betlemme per dire a tutti: “Sono con voi, sono vicino a voi”» riprende a dire padre Faltas. La visita giunge in un momento particolarmente difficile anche per il processo di dialogo, la cui crisi si ripercuote sulla situazione dei cristiani di questa terra che vivono sotto la pressione d’Israele. Betlemme è l’unica città di tutta la Cisgiordania ad avere tre campi profughi. A Dheisheh vivono 15 mila persone, è il più grande campo profughi dopo quello di Gaza. «Dalla visita di Giovanni Paolo II ad oggi la situazione è molto peggiorata» riprende padre Faltas «la Terra Santa ha bisogno di ponti, come disse Giovanni Paolo II, non di muri.

C’è adesso molta aspettativa sulla visita papa Francesco anche per una ripresa dei negoziati ed è stato molto apprezzato dalla nostra gente che papa Francesco abbia scelto di fermarsi in colloquio con famiglie cristiane con situazioni difficili che potranno dire direttamente al Papa i loro problemi e le loro sofferenze». Prima della visita privata alla Grotta della Natività papa Francesco s’intratterrà, infatti, a pranzo con cinque di queste famiglie. Una viene dalla Galilea, esule da un villaggio distrutto dalla guerra del 1948. Una da Beit Jala, un’altra dalla stessa Betlemme, una da Gaza e una infine da Gerusalemme.

«Vedere il papa è un regalo che non avrei mai immaginato nella mia vita» dice Joseph Hazboun che con sua moglie Rima e due dei suoi figli è una delle cinque famiglie che incontreranno il papa a Betlemme. Hazboun è palestinese, nativo di Betlemme, ma vive e lavora a Gerusalemme nella Pontificial mission che sostiene la popolazione palestinese, sia cristiana che musulmana, un’opera  nata per l’assistenza ai profughi. Come palestinese a Gerusalemme è soggetto a restrizioni che non gli consentono di vivere serenamente unito alla sua famiglia. «Al papa faremo presente la nostra situazione e sarò portavoce di una comunità cristiana, quella di Gerusalemme, che soffre gravi ingiustizie» dice Hazboun.

Sono circa dodicimila i cristiani dei diversi riti nella Citta Santa. Dagli incontri avuti con i diversi membri di queste comunità Hazboun ritiene che l’unione dei cristiani  è in questo momento molto sentita e diventerà sempre più centrale «perché» afferma «i problemi sono tanti e abbiamo bisogno di questa unità per affrontarli e per la pace». «Mi hanno incaricato di consegnare al papa a nome di tutti i cristiani di Gerusalemme una lettera» dice infine «l’abbiamo chiamata “figli della Resurrezione”, così come in arabo si chiama la basilica del Santo Sepolcro e raccoglie tutte le nostre speranze di cristiani che vivono nella culla del cristianesimo».

 
16 maggio 2014
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