L’incendio sul tetto del mondo
Emanuele Giordana - Lettera22
I cinesi sparano. I tibetani bruciano negozi cinesi e auto delle polizia. Nel luogo storico della non violenza e del cammino interiore qualcosa è accaduto e sembra segnare un punto di non ritorno. Analisi di una crisi che va oltre la cronaca terribile di queste ore.
La protesta dilaga sul Tetto del mondo. Provano a fermarla le pallottole di un esercito che per i tibetani è di occupazione e che, per la prima volta dal 1959, quando il Tibet tentò di scrollarsi di dosso l'occupazione cinese, era ormai certo di tenere saldamente in mano il bastone del comando. Ma ieri a Lhasa, dopo giorni di proteste di piazza, agli ordinati cortei di monaci nelle loro vesti porpora hanno cominciato a unirsi i residenti di una capitale da 57 anni sotto tutela. Non si sa quale scintilla abbia incendiato la città ma improvvisamente Lhasa è stata attraversata da un'ondata di violenza che ha preso di mira macchine della polizia e negozi cinesi, dati alle fiamme, ma anche la piccola comunità di commercianti musulmani, il mercato di Chomsigkang, l'intero centro cittadino. Le forze di sicurezza cinese hanno sparato più volte spesso, secondo testimoni, servendosi di agenti in borghese e, mentre scriviamo, non è certo il bilancio dei morti né l'esatta dinamica dei fatti in una regione del mondo sigillata e afona. La protesta non si è fermata alla capitale: dilaga in altre zone del paese in modo spontaneo e sotto il maglio di una repressione che ha aspettato una settimana prima di scattare. Immediate le reazioni internazionali, dalla Casa Bianca all'Unione europea all'Onu, ai molti organismi di tutela dei diritti umani che chiedono moderazione e la ripresa del dialogo con le autorità tibetane. La situazione in Tibet preoccupa molto anche l'Italia e Massimo D'Alema chiede a Pechino di porre fine alla repressione. Inviti alla moderazione che per ora sembrano cadere nel vuoto e che sono stati accompagnati dalle proteste del Dalai Lama che ha rivolto un appello a Pechino perché fermi l'uso della «forza bruta». «Queste proteste – ha detto il leader in esilio – sono una manifestazione del profondo risentimento del popolo tibetano nei confronti dell'attuale governo. Mi appello alla leadership cinese perché cessi di usare la forza e affronti il risentimento a lungo sopito del popolo tibetano attraverso il dialogo».
E' per ricordare la sollevazione contro Pechino del 1959 che in questi giorni in Tibet, in Nepal e in India si è tornati nelle piazze. In realtà da allora, sino praticamente ai giorni scorsi, i tibetani se ne sono stati abbastanza buoni, tenuti calmi dallo stesso Dalai Lama diventato un raffinato diplomatico la cui prima preoccupazione era di evitare che nel suo paese la sottomissione a Pechino generasse un movimento armato e il ricorso alla violenza. Ha scelto sempre le armi del negoziato tanto da attirarsi anche qualche critica. Ma ha evitato il peggio. Un peggio sempre in agguato e che ieri si è manifestato nella sua brutalità in una capitale attraversata da una protesta spontanea, senza una guida apparente e che è la più massiccia da quel marzo del 1959 di cui ricorre quest'anno il 49mo anniversario. Notizie che colpiscono due volte non solo perché le proteste in Tibet sono rare ma proprio perché questo tipo di reazione non è mai stata la scelta della leadership tibetana in esilio. Qualcosa è successo. Qualche punto di non ritorno è stato oltrepassato. Il tappo è saltato sul “Tetto del mondo”, un pianeta del quale pochissimo sappiamo o possiamo sapere: un pianeta muto se non fosse per quanto fa e dice la diaspora all'estero, soprattutto in India dove conta 120mila rifugiati.
Negli anni infatti l'India è diventata la sede del governo tibetano in esilio. Per Indira Gandhi, non meno che per i suoi successori, gli insediamenti tibetani sparsi in territorio indiano, erano una spina nel fianco di Pechino. Una scelta dettata dalla geopoltica più che dall'etica. Negli ultimi anni qualcosa però è cambiato. I tibetani possono contare su un minor appoggio di Delhi che, qualche anno fa, ha scambiato il riconoscimento cinese del Sikkim per quello indiano del Tibet come rispettive appartenenze. Ragioni di stato. Uno schiaffo a Tenzin Gyatso molto simile a quello che la democrazia indiana ha regalato ad Aung San Suu Kyi quando ha deciso di ricevere a Nuova Delhi il capo della giunta birmana per fare affari con lui. Le cose dunque si sono complicate. I tibetani possono contare sull'appoggio degli Stati Uniti, almeno sino a quando i rapporti con Pechino continueranno ad essere tesi, ma non già su quello di diversi governi occidentali, tra cui l'Italia se si pensa alla polemica seguita al recente viaggio italiano del Dalai Lama che Prodi non ha voluto ricevere. Come ugualmente ha fatto Benedetto XVI. Ragioni di stato.
E' a questa congiuntura internazionale che bisogna dunque guardare osservando, per quel che possiamo, ciò che avviene a Lhasa in queste ore dove la ricorrenza del marzo del '59, che segnò la rivolta contro Pechino quanto l'esilio del Dalai Lama, ha dato la stura alle proteste alle quali la Cina, conscia di avere gli occhi addosso e tremebonda per il futuro delle Olimpiadi, ha aspettato a reagire duramente sino a ieri. Stura a proteste che vanno più in là della compassionevole diplomazia del XIV Dalai Lama. Diplomazia in sempre più seria difficoltà e forse sempre meno compresa nella vita quotidiana di tutti i giorni dai residenti sul Tetto del mondo.
Fonte Lettera22, pubblicato anche su Il Riformista
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15 marzo 2007