Centrafrica, la storia si ripete


Davide Maggiore - ilmondodiannibale.globalist.it


Un leader di transizione, la tentazione di militarizzare ulteriormente l’area. Rimedi che rischiano di essere illusori se non si aggrediscono le vere radici dell’instabilità.


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repubblicacentrafrica2014

Fuori un altro. È durata meno di un anno la stagione di Michel Djotodia al potere nella Repubblica Centrafricana: l’ex capo ribelle che non ha saputo (o non ha voluto?) frenare i miliziani della coalizione Seleka che lo avevano installato con la forza nei palazzi di Bangui esce silenziosamente di scena. E, colmo dell’umiliazione, lo fa ripercorrendo le orme dell’uomo che lui stesso aveva deposto, François Bozizé: ritirandosi, cioè, in esilio fuori dai confini del paese, in questo caso in Benin.

Al di là di qualche differenza di diverso peso – Bozizé, dopo un dominio quasi decennale, fu defenestrato da un golpe, Djotodia ha concluso il suo breve ‘regno’ con le dimissioni dopo un vertice dei Paesi della regione – le analogie tra le due vicende sono molte: in entrambi i casi l’uomo forte (o presunto tale) in carica ha ricevuto dall’esterno il benservito, quando si è preso atto che non riusciva a governare efficacemente la polveriera centrafricana. Per Bozizé furono i contratti minerari – che l’ex-generale avrebbe voluto rivedere, con prevedibili svantaggi per la Francia – per Djotodia, la cui autorità effettiva andava a stento oltre il palazzo presidenziale, l’impossibilità di arrestare l’anarchia imperante.

La storia si ripete, e lo fa perché non sono cambiate le condizioni di fondo. Il Centrafrica è oggi un campo di battaglia per forze straniere: i mercenari ciadiani e sudanesi di Seleka contro la forza internazionale (che comprende a sua volta, paradossalmente, anche un contingente del Ciad) e le truppe francesi, con le autoproclamate milizie ‘di autodifesa’ degli ‘anti-balaka’ ad accrescere il caos. Ma ha mai smesso di esserlo? No, anche nel senso più ampio del termine, quello degli onnipresenti accordi sulle risorse: ai francesi interessa l’uranio, ai sudafricani i diamanti, a tutti il petrolio, proveniente dagli stessi giacimenti che – al di là del confine – fanno la fortuna del presidente ciadiano Déby.

Anche le battaglie reali non sono cominciate ieri, o qualche mese fa: prescindendo dalle varie sigle guerrigliere a volte impossibili da seguire tra scomposizioni e ricomposizioni, non bisogna dimenticare che negli anni hanno trovato nella Repubblica Centrafricana un terreno per le loro scorrerie il Lord Resistance Army di Jospeph Kony e altri miliziani impegnati nell’eterno conflitto congolese. Missioni di pace (o d’interposizione) finanziate da organismi internazionali sono presenti da molto tempo nel paese, al di là del cambiamento di nome e di ‘cappello’ istituzionale. Senza un mandato chiaro – e immune da condizionamenti provenienti sia dall’Europa che dall’Africa – un’ulteriore militarizzazione dello scenario non eviterà il suo incancrenirsi, come hanno sperimentato per prime le truppe francesi della missione Sangaris.

“In una settimana, niente più colpi d’arma da fuoco a Bangui”, ha però promesso Alexandre-Ferdinand Nguendet, il politico incaricato, dopo le dimissioni del presidente e del premier Tiangaye, di realizzare una vera impresa, ovvero traghettare il Paese a regolari elezioni. Il ritorno di numerosi combattenti anti-balaka nei ranghi dell’esercito, abbandonati dopo la presa del potere da parte di Djotodia, è un segnale importante ma isolato: e se anche la sicurezza fosse finalmente garantita nella capitale, resta difficile capire cosa accadrà delle zone rurali, dove le milizie rivali sono trincerate l’una contro l’altra, senza curarsi dei cambi al vertice. E dove la mancanza di servizi anche basilari – sanità, scuole, persino strade – è un problema che nessun governo ha mai affrontato con efficacia.

Di fronte allo scacco politico – sia nazionale che internazionale – potrebbe essere la società civile a portare con sé almeno qualche seme di speranza. Nel cercare di evitare le vendette incrociate tra la maggioranza cristiana (di cui faceva parte Bozizé) e la minoranza islamica (da cui proveniva Djotodia) sono stati molto attivi i leader religiosi locali, con in testa l’arcivescovo di Bangui e il principale imam del Paese. E nel garantire la convivenza è altrettanto prezioso – ad esempio – lo sforzo di quelle famiglie che ospitano gli sfollati in fuga dagli scontri: quattro, cinque, persino dieci persone in più per nucleo familiare.

Cominciare da queste realtà, e non dai sempre identici giochi di palazzo, potrebbe essere un modo, per la comunità internazionale, di accogliere l’appello a “ristabilire la pace”, che papa Francesco è tornato ancora una volta a far sentire.

Fonte: http://ilmondodiannibale.globalist.it

13 gennaio 2014

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