Aung San Suu Kyi in Italia
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Il viaggio del premio Nobel per la pace 1991 dimostra quanto stia cambiando il paese asiatico. Ma i problemi in Mynamar rimangono, a cominciare dagli scontri interetnici e religiosi.
Aung San Suu Kyi è in Italia alla fine del mese per incontrare gli esponenti di organizzazioni, università e della politica che per anni hanno appoggiato la sua figura e la lotta per la democrazia in Myanmar. Il viaggio del premio Nobel per la pace 1991 dimostra quanto stia cambiando il paese asiatico. Dal novembre 2010 ad oggi i militari si sono ordinatamente defilati e, anche se il pericolo di un ritorno dei generali è sempre presente, il governo civile di Thein Sein (anche lui un ex militare) sembra avere appoggi internazionali sufficienti per scongiurare qualsiasi rigurgito dittatoriale.
Numerose le riforme già attuate a norme di legge: dall’abolizione della censura alla liberalizzazione dei partiti politici e dei sindacati. Le porte delle carceri sono state aperte per quasi tutti i prigionieri di opinione; solo tre anni fa erano più di 2.000 coloro che, a causa delle loro opinioni, vivevano rinchiusi dietro le sbarre; oggi sono meno di 100. Alla stessa Aung san Suu Kyi, dopo essere stata eletta nel parlamento, è stata data libertà di movimento e di parola, opportunità che non si è lasciata sfuggire.
Ma i problemi in Mynamar rimangono, a cominciare dagli scontri interetnici e religiosi. Decine di eserciti nazionalisti continuano ad essere presenti su un territorio che ospita ben 135 etnie differenti, di cui quella Bamar (da cui il nome Birmania) è solo quella più numerosa. I governi succedutisi dall’indipendenza ad oggi hanno sempre cercato di trovare un accordo che potesse mettere a tacere le armi, senza mai riuscirvi. Solo all’inizio di ottobre 2013, con la firma del trattato con il Kachin Independence Army (KIA), una delle più potenti formazioni militari nazionaliste, per la prima volta nel paese si è trovata una pace. Ma è una tregua fragilissima che nessuno, in Myanmar, pensa durerà a lungo. Un cessate il fuoco dettato da interessi economici, più che da una precisa volontà di pace. Nel territorio Kachin, infatti, passa il gasdotto che porta gas naturale in Cina, mentre il territorio è costellato da miniere di zaffiri e giade senza contare le innumerevoli centrali idroelettriche gestite da compagnie cinesi. Altre formazioni militari al confine con la Tailandia, come gli Shan ed i Wa, premono per ottenere autonomie politiche ed economiche sempre più ampie che il governo centrale non sarà in grado di soddisfare.
Ai confini occidentali, infine, sono scoppiati gli scontri tra Rakhine buddisti e Rohingya musulmani, a cui il governo non riconosce alcuna identità, neppure quella del nome, preferendoli chiamare Bengalesi. Ben presto gli scontri etnico-religiosi si sono propagati anche in altri stati meridionali del paese, dove sono presenti altre comunità islamiche. Il movimento 969, fondato da due monaci buddisti, alimenta l’intolleranza chiedendo ai fedeli di non comprare alcun prodotto dai negozi gestiti da musulmani e installando tra i birmani la paura di un fantomatico complotto jihadista per trasformare il Myanmar in una nazione islamica.
Aung San Suu Kyi non si è mai espressa con decisione su questa questione, che ha lasciati strascichi pesanti con centinaia di morti e 140.000 Rohingya che han dovuto abbandonare le loro case. Ogni volta che alla leader birmana che, ricordiamolo, è pur sempre un premio Nobel, viene chiesta una dichiarazione a favore dei musulmani, lei ha sempre glissato trincerandosi dietro il fatto che i Rohingya non sono cittadini birmani e il parlamento non riconosce loro alcuna nazionalità. Un atteggiamento a dir poco deludente per chi si è sempre battuta per i diritti delle minoranze. Nel suo tour europeo Aung San Suu Kyi ha preferito puntare sulle riforme costituzionali ed in particolare sulla questione presidenziale. Nel 2015, infatti, il Myanmar dovrà scegliere il suo nuovo presidente e l’attuale costituzione (così come tutte le altre dal 1947 ad oggi, del resto), proibisce che chi ha parenti stranieri possa concorrere alla carica. Aung San Suu Kyi ne sarebbe quindi esclusa, visto che i suoi due figli hanno passaporto britannico. La sua lotta per la riforma, quindi, non è del tutto disinteressata e questo getta un’ombra sulla reale voglia di democrazia e giustizia della Lady.
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