3 maggio: Giornata della memoria dei giornalisti uccisi dalle mafie e dal terrorismo


Guido Columba


E’ la prima volta che tutti i 36 giornalisti uccisi nel dopoguerra saranno ricordati in una unica cerimonia. Domani iniziativa in Campidoglio a Roma.


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3 maggio: Giornata della memoria dei giornalisti uccisi dalle mafie e dal terrorismo

Domani 3 maggio, si svolgerà la “Giornata della memoria dei giornalisti uccisi dalle mafie e dal terrorismo”: la cerimonia si svolgerà nella sala della Protomoteca del Campidoglio con inizio alle ore 11. La manifestazione, organizzata dall’Unione Nazionale Cronisti Italiani, d’intesa con la Federazione della Stampa e l’Ordine nazionale dei giornalisti, in concomitanza con la Giornata mondiale della libertà dell’informazione indetta da Onu e Unesco, ricorderà il sacrificio dei giornalisti che hanno pagato con la vita la loro determinazione a testimoniare la verità.

La Giornata intende ricordare anche i giornalisti uccisi mentre lavoravano all’estero o in Italia in circostanze diverse, gli operatori caduti mentre riprendevano immagini e i giornalisti feriti dal terrorismo o all’estero. E’ la prima volta che tutti i giornalisti uccisi nel dopoguerra, 36, saranno ricordati in una unica cerimonia. Oltre agli interventi programmati, via sarà un ampio spazio per le testimonianze dei familiari dei colleghi uccisi e per quelli feriti presenti in gran numero.

Per l’occasione l’Unci ha pubblicato un libro con le storie degli 11 colleghi uccisi in Italia nel dopoguerra da mafia, camorra e terrorismo, quelle dei giornalisti uccisi all’estero o in Italia in circostanze diverse, un capitolo per i colleghi gambizzati, uno per gli operatori tv uccisi, una sintetica biografia di tutti e la presentazione del Giardino della Memoria di Palermo.

Dal volume fuori commercio:

Il cronista che scriveva tutto (storia di Giovanni Spampinato)- di Alberto Spampinato*

Tutti si gloriavano di vivere a Ragusa, capoluogo della Sicilia produttiva e perbene. Ragusa era la provincia "babba", un pezzo di Sicilia celebrato in quanto pacifico, pulito, tranquillo, immune da contaminazioni mafiose. Ma non era questo luogo paradisiaco. Era un verminaio, solo che nessuno ci faceva caso e nessuno guardava dietro la facciata. In città si svolgevano oscuri traffici. Il perbenismo nascondeva turpitudini da provincia corrotta. Le belle spiagge erano approdo sicuro di contrabbandieri di sigarette, droga e armi. I campi disseminati di carrubi e recintati da muretti a secco ospitavano campi paramilitari clandestini. La passione di alcuni per gli scavi archeologici faceva da paravento a raduni eversivi di estrema destra. Superlatitanti dell'eversione nera circolavano indisturbati…
Convinti di vivere nel migliore dei mondi possibili, i pacifici cittadini di Ragusa rifiutavano di vedere queste crepe. Non vollero vederle neppure il 25 febbraio 1972, quando l’armonia fu turbata da un truce e oscuro omicidio. Il cadavere di Angelo Tumino, 48 anni, ingegnere, ex play boy, ex consigliere comunale del Msi, commerciante di antiquariato, fu trovato abbandonato su una trazzera. L’uomo era stato barbaramente ucciso. Da chi? Vagamente, i giornali scrissero: ”le indagini seguono tutte le piste”, e si disinteressarono delle indagini.

Fra i corrispondenti c’era un ragazzo di 25 anni che vedeva le cose diversamente. Si chiamava Giovanni Spampinato. Studiava filosofia all’Università di Catania. Tre anni prima, Vittorio Nisticò, il leggendario direttore de "L'Ora degli anni ruggenti" lo aveva reclutato come corrispondente con l’incarico di guardare dietro la facciata. Da allora, il ragazzo trascurava gli esami, pubblicava documentate inchieste sulle rughe che stravolgevano il celebrato volto della “provincia babba”. Dalla redazione di Palermo riceveva complimenti, ma dai suoi concittadini solo rancori e critiche. Anche alcuni suoi colleghi erano risentiti. “Chi te lo fa fare?”, gli dicevano quelli che si vantavano di andare d’accordo con tutti. Nell’estate del 1970 Giovanni aveva letto “Strage di Stato”, pubblicato da Samonà e Savelli. Era stata un’illuminazione. Da allora aveva voluto raccontare la versione siciliana di “Strage di Stato”. Le sue inchieste descrivevano il frenetico attivismo, nella provincia babba e dintorni, di gruppi eversivi di estrema destra collegati ai fascisti locali e ai caporioni di Ordine Nuovo e non estranei agli oscuri traffici lungo la costa.

Giovanni guardò dietro la facciata anche quel 25 febbraio 1972, quando a Ragusa fu assassinato Tumino. Poi scrisse sul suo giornale: gli inquirenti seguono tutte le piste, e fra tutte le piste, ce n’è una che porta dentro il Palazzo di Giustizia. Fra i sospettati c'è un insospettabile: il figlio del Presidente del nostro Tribunale. Inoltre nelle indagini, aggiunse, sono coinvolti alcuni protagonisti delle mie inchieste sulle trame nere…. Gli altri corrispondenti non scrissero nulla di tutto ciò. “Manca la conferma ufficiale”, dissero. Giovanni cominciò a chiedere: come mai stando così le cose – perché Il figlio del giudice era veramente sospettato – l’istruttoria penale non viene trasferita in un’altra città? Anche allora gli altri corrispondenti si voltarono dall’altra parte.

A Ragusa gli articoli di Giovanni giravano di mano in mano. Non si parlava d’altro. Ma non succedeva niente. C’era solo quel ragazzo-giornalista che raccoglieva notizie e continuava a fare il grillo parlante. Espose anche il punto debole dell’alibi del figlio del giudice. Passarono sei mesi. L’inchiesta restò a Ragusa girando a vuoto. Poi il 27 ottobre 1972, il sospettato scaricò addosso a Giovanni due delle cento pistole con cui notoriamente andava in giro. Lo uccise, prese un sonnifero e si costituì.
I giudici furono molto comprensivi. Lo trattarono come un figlio. Gli diedero solo uno scapaccione. Per salvarlo dall’accusa di omicidio volontario premeditato e da altre aggravanti che portavano dritto all’ergastolo, dissero che con i suoi articoli (che riferivano notizie vere) quel giornalista lo aveva provocato in modo insopportabile. Al processo, il “figlio della giustizia” se la cavò con una condanna a 14 anni. Di fatto ne scontò solo otto, e in manicomio giudiziario.

Dopo il delitto, la provincia babba riprese il quieto tran tran. Delle piste del delitto Tumino indicate da Spampinato non si occupò più nessuno. Svanirono nel nulla. Come dire? A volte un delitto lava l’altro.

Il 6 novembre 1972 Giovanni avrebbe compiuto 26 anni. Era un ragazzo mite, innamorato della vita, alle prese con i sogni e le prove della sua età. Era cresciuto in una famiglia di modeste condizioni, ma di grandi ideali: suo padre Peppino era stato un valoroso comandante partigiano sui monti della Jugoslavia. I suoi atti d’eroismo erano stati compensati con due medaglie d’argento al valor militare. Poi era stato uno dei fondatori del Pci di Ragusa e uno dei dirigenti più noti. Su piano della militanza politica, Giovanni si era sempre distinto dal padre. Lui era un intellettuale di sinistra pieno di dubbi, di buone letture e di solida formazione. I suoi ideali, i suoi principi erano quelli più nobili del Sessantotto: giustizia, uguaglianza sociale, diritto allo studio, diritto al lavoro, politica partecipata dalla base e volontariato sociale: nel 1968, dopo il terremoto che distrusse interi paesi e causò oltre mille morti, andò nella Valle del Belice con i soccorritori.
Negli Anni Settanta, nella beata “provincia babba”, la democrazia e l’antifascismo erano considerati un optional ed erano apertamente avversati da formazioni di nostalgici della monarchia e del fascismo, che avevano molto seguito. Già al Liceo Giovanni, “il figlio del comunista”, aveva dovuto fare i conti con loro. Lui si batteva per affermare i valori della Resistenza e della Costituzione repubblicana. Ora, con l’impegno politico, con i suoi articoli cercava di scuotere concittadini che consideravano giusti, fondati perfino i privilegi semifeudali e le angherie che, ancora nel 1970, nelle campagne di Ragusa, regolavano i rapporti fra chi possedeva la terra e chi la lavorava. Giovanni cercava di scuotere anche i suoi colleghi giornalisti e i giornali locali che rimandavano quel riflesso ingannevole, mistificante della realtà circostante: la solita immagine edulcorata, paradisiaca della “provincia babba”. L’immagine stereotipata celebrata anche dal vescovo, un prelato di vecchio stampo che non digeriva le novità del Concilio Vaticano II e i mal di pancia del dissenso cattolico, e neppure le lotte sindacali: vantava sempre l’animo pacifico del suo gregge che rifiutava la lotta di classe.

Giovanni non riusciva ad accettare che si potesse dare un’immagine così falsa e strumentale di Ragusa. Si sentiva immerso nella falsità. Noi diremmo: in un “Truman show”. Si chiedeva: come fanno gli altri, che vivono accanto a me, a fingere di non vedere quel che vedo io? Non riusciva a spiegarlo. Talora dubitava delle sue deduzioni. Ma poi i fatti gli davano ragione, e ripartiva sentendo l’ebbrezza di chi ha il dono della vista in un mondo di ciechi.

Le cose andavano proprio così! Neanche quelli che gli erano più vicini vedevano quel che vedeva Giovanni. Neanche io, che ero suo fratello e avevo diviso con lui sogni, progetti ed ideali, vedevo quel che vedeva lui. Non riuscivamo a credere agli allarmi che lanciava. Non accettavamo l’idea che Giovanni potesse capire meglio di noi quel che accadeva sotto i nostri occhi. Eravamo ciechi e sordi. Sottovalutavamo il fatto che Giovanni disponeva di strumenti di conoscenza e di interpretazione della realtà più potenti dei nostri: il giornalismo di inchiesta, la supervisione della redazione dell’Ora, una formazione multi-disciplinare, contatti al di fuori del mondo chiuso di Ragusa.

Invano Giovanni additò le scoperte agli amici, ai coetanei del gruppo politico spontaneo “Dialogo”, che era in quegli anni il luogo di aggregazione giovanile più vivace di Ragusa. Dal 1967 al 1969, a Ragusa, era stato il gruppo di avanguardia della contestazione giovanile e del dissenso cattolico. Ma nel 1970 esitava a fare i conti con una realtà politica che si era evoluta e richiedeva qualcosa di più dello spontaneismo. Anch’io facevo parte di Dialogo. “Aprite gli occhi, facciamo un passo avanti tutti insieme”, ci scongiurava Giovanni.. Aveva compreso che la fiammata spontaneista del Sessantotto si era ormai esaurita, che non bastava l’impegno politico sul fronte del ‘no’ a tutto e a tutti, della contestazione globale al sistema. Riteneva necessaria, urgente una scelta di campo politico. Insieme al suo gruppo, voleva scegliere una parte politica ben definita nel campo della sinistra. Ma il gruppo non era pronto, non si lasciò trascinare, e Giovanni fece la scelta da solo. Fu tentato di aderire al Manifesto, che era appena nato, poi approdò al Pci da indipendente. Portò nel partito di Berlinguer il suo entusiasmo e il suo fardello di interrogativi e di progetti.

Inutile dirlo, le sue aspettative andarono deluse: scoprì presto che il partito non era il formidabile intellettuale collettivo descritto da Antonio Gramsci, né il partito rivoluzionario disegnato da Lenin. Era una bottega elettorale gelosa dei propri assetti interni, poco permeabile a discutere idee che non arrivavano col suggello di autenticità di Botteghe Oscure. Giovanni ne fu deluso, ma non si arrese. Si collegò ai gruppi politici più vivaci – gli anarchici, i giovani socialisti, le Acli – e si buttò anima e corpo nelle sue inchieste, in una esplorazione diretta della realtà, spingendosi da solo in mare aperto, su terreni sempre più difficili. Pubblicò così, da testimone solitario, le inchieste clamorose che docu-mentavano, intorno a Ragusa, Catania e Siracusa, un’intensa attività eversiva di estrema destra. A un certo punto, si rese conto che nell’aria c’era qualcosa di grosso, comprese di essere entrato nel mirino. Allora scrisse un lucido memoriale e lo affidò al suo partito, il Pci, lanciando un forte e motivato allarme. Il partito lasciò il memoriale nel cassetto. Lo tirò fuori solo dopo la sua morte.

Nel piccolo mondo di Ragusa, Giovanni aveva la fortuna e la disgrazia di essere un giornalista. Era cioè uno dei pochi a disporre di un occhio acuto in un mondo di ciechi. Questo status lo stimolava a fare la “piccola vedetta lombarda”, a salire in alto, sui pennoni più esposti al fuoco nemico per fare un’osservazione in nome collettivo. Forse nessun’altro disponeva di una panoramica completa e aggiornata come quella che Giovanni riuscì ad avere facendo, dal 1969 al 1972, il cronista di Ragusa, con gli stimoli e il monitoraggio della redazione di Palermo. Giovanni ebbe l’opportunità di scoprire e di raccontare al mondo esterno cosa si nascondeva sotto l’etichetta rassicurante della “provincia babba”. Scoprì, ad esempio, e lo raccontò ai suoi lettori, che super-latitanti dell’eversione nera circolavano liberamente, riveriti e ossequiati; che negli ambienti della destra locale si parlava di campi paramilitari, di armi, di sbarchi clandestini di strane merci sul litorale circostante; scoprì che a Ragusa erano arrivati da Roma noti fascisti che ostentavano legami col principe nero golpista Junio Valerio Borghese, che avevano mirabolanti progetti di investimenti. E mentre faceva queste scoperte, nella quiete bucolica di Ragusa, fra i muretti a secco, le mucche al pascolo brado e i carrubi secolari dell’oleografia consolidata, si verificò quel fatto assolutamente fuori dell’ordinario: l’assassinio dell’ingegner Angelo Tumino, un noto professionista che aveva rapporti con alcuni dei personaggi citati nelle inchieste di Giovanni sul neofascismo, ucciso con modalità che fecero subito pensare allo stile mafioso, a un’esecuzione in piena regola. Com’era possibile che accadesse una cosa così orribile, nel migliore dei mondi possibili?

Lo schizzo di sangue dell’omicidio Tumino imbrattò il paradisiaco scenario del “Truman show”. Quando nelle indagini fu coinvolto quel personaggio al di sopra di ogni sospetto, il figlio del giudice più alto in grado in città, Giovanni lo scrisse sul suo giornale. Immaginò che finalmente il velo dell’ipocrisia sarebbe caduto, che finalmente i suoi concittadini avrebbero convenuto con le sue idee sulla vera natura della provincia iblea, avrebbero ammesso che lì avvenivano strane cose. Giovanni immaginava questi sviluppi. Si sbagliava. I suoi concittadini si preoccuparono solo di cancellare in fretta la macchia di sangue e di riprendere lo spettacolo. La parte imbrattata dello scenario fu ritagliata con cura e nascosta alla buona, sotto il tappeto, davanti a molti testimoni, davanti allo sguardo distratto dei giornalisti del luogo. Anche loro finsero di non vedere. Giovanni invece documentò e descrisse la scena ai lettori dell’Ora. Il giornale pubblicò il nome del sospettato eccellente. Fu uno scandalo. Ma a finire sotto accusa fu proprio il cronista indiscreto… Giovanni dovette giustificarsi. “Come avrei potuto tacere un fatto così clamoroso, e per di più palese?”, diceva. Anche nei mesi successivi fu l’unico cronista a scrivere articoli sullo stallo delle indagini.

Il figlio del giudice sospettato si chiamava Roberto Campria. Aveva trent’anni. Era un giovane scapestrato. All’Università s’era perso per strada e i genitori gli avevano procurato un impiego pubblico. Collezionava armi, giocava a carte, frequentava personaggi equivoci della destra e della malavita. Insomma la sua figura non era adamantina. Ma era il rampollo dell’alto magistrato, e forse proprio per questo fu trattato con molta, troppa indulgenza dagli inquirenti. E, nonostante questo, non sapeva come uscirsene. Era preoccupato che fossero pubblicato altre notizie sui sospetti che gravavano su di lui. Spalleggiato dai genitori, tentò di intimidire il cronista dell’Ora. Prima, con una querela insostenibile, che in Tribunale fu lasciata cadere. Poi cercando di conquistare la fiducia del cronista per tirarlo dalla sua parte. Gli confidò, ad esempio, di temere che chi gli aveva fornito l’alibi cambiasse idea. Giovanni pubblicava le dichiarazioni del sospettato che si dichiarava innocente. Ma questi non si accontentava. Lo assillava con le sue richieste. Voleva che il ragazzo-giornalista scrivesse in un articolo di essersi convinto che con l’omicidio non c’entrava nulla. Come puoi pretendere da me una cosa simile, gli obiettava Giovanni? E a cosa servirebbe? Il sospettato cominciò a fare la vittima. Ce l’avevano con lui perché ce l’avevano con suo padre…
Diceva che a Palazzo di Giustizia c’era una lotta contro suo padre. Cercavano di coinvolgere il figlio per fregare lui. Scrivilo, diceva al cronista. Giovanni rispondeva: se metterai questa dichiarazione per iscritto, io ne darò notizia e col massimo rilievo. Il confronto si arenò su questo punto. Il sospettato insisteva per un articolo che scagionasse lui e mettesse in buona luce suo padre. Sapeva benissimo che non spettava al ragazzo-giornalista scagionarlo. Qual era il suo vero obiettivo? Forse scoprire se il cronista sapeva qualcos’altro sul suo conto e sulle indagini sul delitto Tumino. O forse semplicemente screditare il giornalista che aveva osato fare il suo nome, facendogli scrivere una bufala. Così non sarebbe più stato preso sul serio, qualunque cosa gli venisse in mente di scrivere. Giovanni si poneva queste domande e non sapeva rispondere. Capiva che il sospettato attribuiva a quell’articolo enorme valore, ma non era disposto a scrivere notizie clamorose senza nessuna pezza di appoggio. Capiva che quel tipo, che si vantava di andare in giro armato, voleva mettergli paura.

Giovanni la paura ce l’aveva, altro che! Ma non voleva darla a vedere, non era disposto a cedere. Non era disposto a dire che quel Truman Show era la realtà. Come avrebbe potuto dirlo, lui che continuava a tenere il drago per la coda? Lui che aveva denunciato lo scandalo? Lui che aveva lanciato l’allarme e adesso aspettava solo che arrivassero “i nostri”? Forse anche il giovane scapestrato figlio del giudice-per-antonomasia temeva che arrivasse il Settimo Cavalleggeri.
Fatto sta che a un certo punto per il figlio del giudice l’attesa si fece intollerabile. Perciò con una scusa attirò il ragazzo-giornalista in un posto isolato, e lo uccise. In Corte d’Assise se la cavò con pochi anni di carcere, e a Ragusa lo spettacolo continuò.

Nessun giornalista scrisse più indiscrezioni sul delitto Tumino, le indagini finirono nel nulla e nel 2006 furono archiviate ad opera di ignoti, fra l’altro, per decisione dello stesso magistrato che aveva svolto le prime indagini, divenuto intanto procuratore della Repubblica di Ragusa. Quel procuratore, Agostino Fera, nel 2007 è stato denunciato da cinquanta cittadini di Ragusa convinti che abbia riservato un trattamento di favore all’illustre sospettato. Fera è stato iscritto nel registro degli indagati per il reato di abuso d’ufficio e di favoreggiamento personale nei confronti del figlio del giudice. Nel 2007 e’ stato accusato dai senatori Giuseppe Di Lello e Giovanni Battaglia di essere un insabbiatore. Ha reagito querelandoli entrambi.
Questa storia io l’ho raccontata più ampiamente nel libro “Vite ribelli”, Sperling & Kupfer, pubblicato a ottobre del 2007. Giovanni Spampinato era mio fratello maggiore. Dal giorno della sua morte non c’è stato più un giorno sereno nella mia famiglia. Per 35 anni la storia di Giovanni è stata bistrattata, messa da parte, accantonata. Solo nel 2007 è tornata attuale, quando alla memoria del cronista di Ragusa è stato assegnato il prestigioso Premio di Giornalismo Saint-Vincent. La Giuria ha definito la sua vicenda emblematica di tutte le storie dei giornalisti uccisi per motivi di mafia e di terrorismo. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha detto che con la sua vita e con la sua morte Giovanni Spampinato ha onorato la storia del giornalismo italiano.

*Alberto Spampinato è il fratello minore di Giovanni. Giornalista professionista, quirinalista dell’Agenzia Ansa, consigliere nazionale della FNSI, dal 1980 vive a Roma.

Fonte: Articolo21

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