Zeev Sternhell: «Apartheid già presente in Israele»
Umberto De Giovannangeli - L'Unità
Il grande storico guarda con amaro realismo il suo Paese, analizza le dinamiche, non solo politiche ma culturali, identitarie, che segnano oggi Israele, a pochi giorni dal 68mo anniversario della sua fondazione.
Il grande storico guarda con amaro realismo il presente del suo Paese, analizza con la consueta passione civile e lucidità intellettuale le dinamiche, non solo politiche ma culturali, identitarie, che segnano oggi Israele, a pochi giorni dal 68mo anniversario della sua fondazione.
La parola a Zeev Sternhell, 79 anni, il più autorevole storico israeliano. Tra le sue opere, ricordiamo «Nascita d’Israele. Miti, storia, contraddizioni»; «Nascita dell’ideologia fascista»; «Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda», editi in Italia da Baldini Castoldi Dalai. Nel 2008, è stato insignito della più prestigiosa onorificenza culturale e scientifica del suo Paese: il Premio Israele per le Scienze politiche. Più che un j’accuse contro l’attuale classe dirigente israeliana, Sternhell pone l’accento sulla «psicologia di una nazione», il suo senso comune, in rapporto all’annoso tema della pace. «Oggi – riflette lo storico – non vi è alcun segnale che indichi la volontà, oltre che la capacità, di forgiare una maggioranza a sostegno di un accordo equo con i palestinesi».
Quanto alla richiesta reiterata più volte dal premier Benjamin Netanyahu al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di riconoscere Israele come Stato ebraico, Sternhell annota: «Avanzare questa richiesta significa pretendere che i palestinesi ammettano la loro sconfitta storica e riconoscano la proprietà esclusiva degli ebrei del Paese. Ciò che si chiede loro è rinnegare la loro identità nazionale, accettando una resa storico-culturale prim’ancora che politica».
Professor Sternhell, i negoziati di pace israelo-palestinesi sono di nuovo a uno stallo, in un rimpallo di responsabilità tra le due parti. Visto da un intellettuale come lei, da sempre impegnato nel dialogo, qual è il segno di questa ennesima battuta d’arresto?
«Il segno dei tempi, il segno di un arretramento culturale prim’ancora che politico che non riguarda solo l’attuale classe politica, alquanto modesta, del mio Paese. Ciò che mi preoccupa di più è l’idea di “pace” che oggi permea trasversalmente Israele, una idea diventata senso comune per la maggioranza dell’opinione pubblica. È qualcosa di più e di più grave di una idea di pace a costo zero. È la convinzione che l’unica pace accettabile è la resa incondizionata dei palestinesi. Vede, se si chiede a un cittadino medio israeliano se è per la pace o per la guerra, le risponderà pronto che lui vuole la pace. Ma la “psicologia di una nazione” emerge quando si scava nell’idea di pace. È qui che si nasconde l’arretramento».
Qual è la «pace» giusta per lei?
«È quella che non può fare a meno di un concetto fondamentale: la giustizia. Una pace senza giustizia è un esercizio retorico destinato a un misero fallimento. Ma la giustizia, in questo caso, è tale se riconosce e rispetta i diritti di tutti e non solo di chi esercita il monopolio della forza. Vede, nel mio Paese chi si considera di sinistra evoca spesso la necessità di battersi per la giustizia sociale. Ma come è possibile realizzare la giustizia sociale senza definire la giustizia come un valore universale? Quali sono i confini della giustizia e della sua attuazione? Questo ci riporta all’occupazione. La giustizia non è solo il diritto a un alloggio decente per gli ebrei, è anche il diritto alla libertà per un popolo che vive sotto occupazione. Prima che in politica, la sinistra ha perso la sua battaglia nel campo della cultura, del confronto di visioni. A 68 anni dalla nascita d’Israele, ad affermarsi sembra essere il revisionismo sionista di Jabotinsky, quello che affida a Israele una sorta di ruolo “messianico”, da popolo eletto; una idea per cui a essere centrate è “Eretz Israel”, la sacra Terra d’Israele piuttosto che “Medinat Israel”, lo Stato d’Israele. In questa visione lo Stato non esiste per garantire la democrazia, l’uguaglianza, i diritti umani o anche una vita dignitosa a tutti; esiste per garantire il dominio ebraico sulla Terra di Israele e per assicurarsi che nessuna entità politica supplementare è qui stabilita. Tutto è ritenuto lecito per raggiungere tale fine e nessun prezzo è considerato troppo elevato. Ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “modernità”. Inesorabilmente Israele si sta trasformando sempre più in una entità anacronistica».
C’è chi paventa il rischio che proseguendo l’occupazione, Israele possa trasformarsi in uno «Stato di apartheid».
«Non si tratta di un rischio, è qualcosa che già si sta determinando nella realtà quotidiana, negli atti compiuti dalle autorità, e nella percezione di sé e dell’altro che ne è il tratto ideologico: l’idea per cui se il palestinese, o l’arabo israeliano, vuol essere “tollerato” deve accettare la propria inferiorità. Quello che così facendo si è creato è un “popolo di espropriati”. Espropriati non solo delle loro terre ma della loro identità, del loro essere più profondo. La strada per il Sudafrica è stata pavimentata e potrà essere smantellata solo se il mondo libero, l’Occidente, porrà Israele di fronte a un aut aut…».
Quale?
«Fermare l’annessione e smantellare la maggior parte delle colonie e lo Stato dei coloni o essere un emarginato».
A proposito dello “Stato dei coloni”. Fuori e dentro Israele è aperto da tempo un dibattito sul boicottaggio dei prodotti che provengono dagli insediamenti. Lei ha affermato in passato che questo boicottaggio non può essere considerato come una forma di antisemitismo. È ancora di questo avviso?
«Assolutamente sì. Il boicottaggio è soprattutto un modo civile, non violento ma concreto, per protestare contro il colonialismo e l’apartheid prevalente nei Territori».
Una tesi condivisa da molti intellettuali israeliani.
«È bene che sia così. Ed è un bene per Israele, per la sua immagine nel mondo. Gli intellettuali sono i migliori ambasciatori del sionismo, ma rappresentano la società israeliana, non la realtà coloniale. Pensano che calpestare i diritti dei palestinesi in nome dei nostri diritti esclusivi per la terra, e in virtù di un decreto divino, contamina la storia ebraica di una macchia indelebile».
Lei afferma che gli intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano.
«No, non è così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione, resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa. da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele».
Fonte: www.unita.it
4 maggio 2014