Yemen: per l’Onu è crisi umanitaria
NEAR EAST NEWS AGENCY
Il discorso televisivo del Presidente Saleh, ospedalizzato in Arabia Saudita, dopo l’attacco dinamitardo di giugno, ha riacceso le proteste nel paese. Mentre una missione ONU conferma nella attuale situazione di instabilità, a pagare il prezzo più alto è la popolazione civile.
E’ crisi umanitaria in Yemen, dicono le Nazioni Unite, al termine di una missione di monitoraggio di 9 giorni conclusasi mercoledì che ha riscontrato come l’instabilità del paese stia dando vita ad una vera e propria “punizione collettiva” per la popolazione civile. Una missione che è stata voluta e inviata dall’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU. A fare le spese delle violenze per il controllo dei poteri, delle lotte tribali e della guerra civile è infatti la popolazione civile. Mancanza elettricità, acqua, cibo e carburante affliggono la popolazione.
Un paese dal futuro incerto, come incerto è il destino del Presidente Ali Abdullah Saleh, in Arabia Saudita da più di un mese, per subire trattamenti medici in seguito alle ferite riportate nell’attacco dinamitardo al palazzo presidenziale, lo scorso 3 giugno.
A lanciare l’allarme era stata l’ONG Oxfam. Dichiarando che i mesi di instabilità a cui si sono aggiunte le proteste di piazza contro i 33 anni di regime di Saleh, hanno esacerbato una situazione già drammatica nel paese., dove almeno 7 milioni di persone vivono in uno stato di fame cronica ogni giorno. Secondo OCHA, il costo del pane sarebbe salito del 50% negli ultimi mesi; incremento dei prezzi tra il 40 e il 60% anche per farina, zucchero e latte; sempre secondo il documento redatto da OCHA, il prezzo del gasolio sarebbe incrementato del 900% negli ultimi 5 mesi; e c’è il rischio che la valuta abbia un ulteriore collasso tanto da condurre un ulteriore 15% della popolazione yemenita sotto la soglia di povertà. Le statistiche indicano che uno yemenita su tre vive in condizioni di insicurezza alimentare o sottonutrito (dati report OCHA del 1 luglio 2011). Secondo i dati del WFP (World Food Programme), 4 delle 21 regioni del paese – Rayma, Amran, Hajja e Ibb – hanno la popolazione con più alto tasso di insicurezza alimentare: i prezzi sono più alti –a causa del costo di trasporto delle merci data la scarsità di gasolio – proprio nelle aeree rurali, che sono già le più vulnerabili.
L’accesso umanitario ad Abyan è notevolmente ristretto, fanno notare le agenzie umanitarie, sottolineando che è il sud ad essere interessato dal più alto numero di rifugiati, senza acqua, cibo, protezione e assistenza sanitaria. Secondo OCHA, più di 15.000 rifugiati interni nelle aree di Aden, Lahj e Abyan non avrebbero accesso ad acqua: in alcune regioni si sta assistendo ad una diffusione del colera.
La situazione economica è catastrofica: la media degli yemeniti vive con meno di 2 dollari al giorno, in alcune regioni anche meno; i prezzi sono ovunque in aumento, la valuta locale, il riyal è in completa svalutazione e il governo non riesce a pagare gli stipendi, le pensioni, i sussidi. Problemi che comunque sussistevano già prima delle proteste di piazza. Una crisi economica a cui si aggiunge quella politica: quello di cui c’è bisogno attualmente, dicono gli analisti, è l’inizio di una transizione verso un governo che assicuri l’eliminazione della corruzione, il rafforzamento delle istituzioni governative, una maggiore sicurezza nel paese, a protezione della popolazione civile. Washington, da parte sua, proseguono alcuni esperti, dovrebbe preoccuparsi più del miglioramento delle condizioni di vita degli yemeniti, cioè trovare soluzioni che risolvano in modo sistematico l’instabilità congenita dello Yemen e non badare soltanto al terrorismo e ai droni da inviare a caccia dell’AQAP (Al-Qaeda nella Penisola Araba). La presenza del terrorismo è stato utilizzato dallo stesso Presidente Saleh come strumento di controllo sociale e politico ma anche come elemento di pressione economica nei confronti della comunità internazionale e soprattutto dei vertici USA. Ad un candidato per la transizione pensano ora non soltanto gli Stati Uniti, a caccia di obiettivi qaedisti nel paese dal 2002, ma anche l’Arabia Saudita, che vigila sui confini (a nord) per timore di possibili rivolte dei gruppi sciiti.
Il vuoto di potere lasciato da Saleh, attualmente ancora ospedalizzato nel regno saudita, non è stato colmato e non è neppure chiaro se il Presidente possa rientrare nel paese. Da 33 anni al potere, storico alleato degli USA, Saleh infatti rifiuta da tempo di farsi da parte e ha detto un fermo no a qualsiasi soluzione di mediazione e anche agli accordi per la soluzione di crisi interna raggiunti dal Consiglio per la Cooperazione del Golfo (GCC), che avrebbero visto le sue dimissioni.
Il suo intervento televisivo registrato in Arabia, e mandato in onda sulla tv yemenita, lo scorso giovedì, ha provocato nuove proteste venerdì, in cui almeno 11 sarebbero state le vittime. Sono migliaia i manifestanti che sono scesi in piazza, dichiarando “politicamente morto” il loro Presidente e chiedendo l’indipendenza da Stati Uniti e Arabia. Un discorso nel quale, non ha offerto alcuna soluzione pratica, né concretamente accennato al suo rientro, nonostante i clan familiari a lui vicini siano ancora al comando dei vertici della “sicurezza” e dei ministeri.
Fonte: NenaNews
11 luglio 2011