“Vivrò ad Amsterdam il sogno di mio fratello”


Michela A.G. Iacciarino - La stampa


La notte del 3 ottobre Zerit sfidò le onde, era partito dalla Libia con suo fratello Samuel, che avrebbe compiuto pochi giorni dopo 26 anni, se non fosse stato inghiottito dall’abisso…


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I reportage sono stati realizzati in collaborazione con Sciabica, un progetto lanciato da Fabrica all’indomani del naufragio del 3 ottobre. Sciabica – parola di origine araba che significa rete da pesca – è una rete che, partendo da Lampedusa, raccoglie le storie di migranti lungo le rotte della disperazione – in Africa e in Medio Oriente – e della speranza – in Europa. Fabrica è il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton Group. Fondato nel 1994, invita giovani creativi da tutto il mondo per sviluppare progetti di ricerca in design, interaction, fotografia, video, musica e giornalismo.  

La notte del 3 ottobre Zerit sfidò le onde, quando il Mediterraneo da culla di sogni ne divenne la bara. Era partito ore prima dalla Libia con suo fratello Samuel, che avrebbe compiuto pochi giorni dopo 26 anni, se non fosse stato inghiottito dall’abisso mentre cercava di raggiungere la prima terra ferma d’Europa che si vede dall’Africa: Lampedusa. Solo ora per la prima volta qui in Olanda pensa a suo fratello come un morto: «sull’isola continuavo a credere che prima o poi, Samuel sarebbe tornato dal mare».

Il giorno dei funerali delle vittime ad Agrigento, davanti a telecamere affannate a registrare l’ennesima variazione sul tema delle vite spezzate, a Zerit apparteneva l’afflizione e la furia dopo l’acqua nei polmoni. Era diventato la voce dei non invitati, dei 157 sopravvissuti in protesta ai cancelli del centro accoglienza, dove, mani congiunte e croce al collo, dava esempio, forza e voce agli altri: «non muovetevi e se lo fate, andate verso il mare». Insieme quel giorno forzarono le recinzioni e camminarono fino alla costa: «Non farlo sarebbe stato come lasciare Samuel in mare un’altra volta».

Adesso a Bellingwolde un grappolo di lampioni comincia a sfidare il buio alle 3 del pomeriggio nell’ombra polverosa di case tutte uguali e selciati lucidi di pioggia. Questo paese al confine tra l’Olanda e la Germania è il nido d’esordio di un destino da richiedente asilo. Al campo migranti dove ora abita, mi bussa alle spalle con una domanda, prima di sparire dietro un inedito sorriso: allora, ti piace la mia nuova casa?

Zeramariam G., detto Zerit, 28 anni, numero 83 nell’elenco dei sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre a un miglio dalle coste dell’ombelico del Mediterraneo, è stato, negli ultimi sei mesi, in quest’ordine: soldato, clandestino, naufrago, sopravvissuto, fuggitivo e rifugiato. Dopo il trasferimento aereo a novembre da Lampedusa a Roma, insieme ad altri 3 eritrei, è scappato a Torino per evitare l’agonia burocratica delle impronte digitali. Con la fotocopia di un passaporto falso tra le mani si è messo in viaggio verso la Francia. A Cannes la polizia lo ammanetta per qualche ora e poi lo lascia libero di rimettersi in viaggio. Il giorno dopo un Eurobus da Parigi lo porta ad Amsterdam, dove cammina nella capitale della sua nuova patria. Raggiunge il campo accoglienza a Bellingwolde e la sua storia di mare e di sangue, cominciata a maggio 2013 in Eritrea, finisce dove una nuova comincia subito. Qui Lampedusa è solo una parola che ora riaffiora alle sue labbra solo come rigurgito.

«Ogni mare era casa mia prima di quella notte». Di quei momenti ha cominciato a lasciare pezzi dietro di sé per dimenticare il ricordo del ritmo affannato di una bracciata dopo l’altra, quando non si voltò più a cercare suo fratello: «Mia madre non poteva perdere due figli sulla stessa barca, tra le stesse onde in una notte sola». Arrivano come inaspettate pugnalate, soprattutto di notte, i rimorsi. Sarebbe stato il numero 84 nella lista dei vivi, avrebbe amato Amsterdam: sono le convinzioni con cui affronta ogni nuovo giorno. Zerit è un biologo marino che odia il mare e non ne vivrà d’ora in poi mai lontano abbastanza. Ma «se parti alla ricerca del tuo posto nel mondo, non c’è tempo per farsi piegare le gambe dal dolore, sono cose che sai se vieni dal deserto, dalla guerra».

Nel suo appartamento H7 dove vive con tre amici c’è un libro ogni giorno diverso sulla coperta blu della sua stanza: chiude gli occhi alle 5 del mattino, li riapre alle 11, ricomincia a leggere. Tra la sala del ping pong e la biblioteca scorrono i giorni d’attesa prima dell’accettazione definitiva della richiesta d’asilo. Il viaggio allora sarà veramente finito. A volte dà lezioni di inglese agli altri o cerca qualcuno che gli insegni l’olandese. Perché vuole rimanere qui: «Questa è l’Europa che sognavo quando sono partito». Quando in quattro escono a passeggiare per vedere «come sta il mondo» raggiungono il mulino a vento al confine tedesco, accarezzano i cavalli, tornano indietro al campo per ora di cena a scambiarsi dettagli sulle mappe reciproche delle fughe con il resto dei migranti.

«Quando sei in Africa gli amici già sbarcati fanno propaganda del nuovo mondo via chat, ti dicono è facile arrivare, compiono il tuo rito d’iniziazione al rischio e tu ti metti in viaggio». Zerit aveva già provato a scappare quattro volte prima di raggiungere, lo scorso maggio, dopo 3 giorni di sete e sabbia a piedi nel deserto, suo fratello Samuel in Sudan, dove lavorava come meccanico per racimolare i 1600 dollari che l’avrebbero fatto salpare da Tripoli il 2 ottobre.

Da un mese all’altro, da un’Europa all’altra, la spirale si è quasi chiusa e ognuno ha concluso la sua odissea come poteva. «Ognuno di noi è custode di un pezzetto di verità da testimoniare su quella notte, siamo rimasti tutti in contatto». Giustizia è ancora una parola impronunciabile per i 157, ma in attesa che giunga, ovunque si trovino, membri di un nuovo esodo in ordine sparso, che li ha condotti in Olanda, Francia, Svezia, Norvegia, Germania, Regno Unito, il 3 di ogni mese accendono un cero alla finestra. L’ultima volta insieme si sono salutati con la promessa di un appuntamento su quell’isola, dove non vogliono tornare mai più, se non quando sarà concesso fermarsi di nuovo a ricordare, visto d’asilo in tasca, il giorno del 3 ottobre dell’anno venturo.

Fonte: www.lastampa.it

24 dicembre 2013

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