Vertice di Annapolis: un’occasione storica che non deve essere sprecata
Luca M. Possati
Osservatore Romano: aumentano le attese sui risultati del vertice che sempre di più si configura come una occasione imperdibile per la costruzione della pace in Medio Oriente.
“Un’occasione storica, che non deve essere sprecata”. La dichiarazione rilasciata dal presidente dell’Autorità palestinese (Ap) Abu Mazen, al suo arrivo ieri a Washington fa intendere con quali aspettative si sta per aprire ad Annapolis la conferenza internazionale voluta dagli Stati Uniti che punta a rilanciare il processo di pace in Vicino Oriente. Mentre 49 delegazioni di Paesi ed enti internazionali si apprestano a raggiungere la sede del vertice, proseguono freneticamente gli incontri fra i negoziatori israeliani e palestinesi per stilare un documento comune. George W. Bush, soddisfatto dell’ampia partecipazione dei Paesi arabi, fra cui anche la Siria e l’Arabia Saudita, ha definito un “impegno personale” la realizzazione del progetto “di due Stati democratici Israele e Palestina, che vivano fianco a fianco nella pace e nella sicurezza”.
Per inaugurare il vertice di Annapolis, oggi il presidente Bush avrà colloqui alla Casa Bianca prima con Olmert e poi con Abu Mazen. Nel pomeriggio è prevista la riunione del Quartetto (Onu, Ue, Usa, Russia), mentre domani, martedì, prenderanno il via i negoziati.
Il nuovo appuntamento diplomatico, dicono alcuni osservatori, nasce tra grande scetticismo e un livello di aspettative molto basso. I numerosi incontri che dallo scorso agosto Abu Mazen e il premier israeliano Ehud Olmert hanno tenuto sia a Gerusalemme sia a Ramallah non hanno condotto alla stesura di un documento comune, rivelando le tante divergenze, ancora profonde, fra israeliani e palestinesi. Dopo il “colpo di mano” del giugno 2007 con il quale Hamas ha preso il controllo della Striscia di Gaza estromettendo Al Fatah e costringendo Abu Mazen a formare un Governo di emergenza con a capo Salam Fayad, tra le fazioni palestinesi la tensione è progressivamente cresciuta, sfociando anche in cruenti scontri armati. Da parte sua, Israele ha dichiarato Gaza “ entità ostile” e non ha esitato a tagliare le risorse energetiche a tutto il territorio della Striscia.
In un tale clima di tensione, i punti su cui le trattative si concentrano sono oramai noti. In primo luogo la questione dei confini e la nascita di uno Stato palestinese autonomo. L’Ap chiede il totale ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nella guerra del 1967, compresa Gerusalemme est. Recentemente Israele ha espresso la propria determinazione a mantenere gli impegni assunti con la Road map, il piano di pace sancito dal Quartetto nel 2002, assicurando di non costituire nuovi insediamenti, di non espropriare terreni palestinesi e di smantellare gli avamposti illegali. I palestinesi – dal canto loro – hanno contestato quest’interpretazione riduttiva della Road map, che impone di “congelare gli insediamenti”, evitando quindi anche il loro allargamento (cosa che Olmert ha accuratamente evitato di promettere).
Un nodo ancor più delicato è quello riguardante lo status di Gerusalemme. Nel 1967 Israele occupò i quartieri orientali e nel 1980 proclamò la città “sua eterna e indivisibile capitale”. Uno status non riconosciuto dalla Comunità internazionale. Olmert ha aperto spiragli di intesa ipotizzando di cedere all’Ap la sovranità su alcune parti di Gerusalemme est. La Knesset non ha tuttavia esitato – sotto la spinta delle forze più conservatrici – ad approvare in via preliminare un provvedimento che eleva il quorum di voti necessari per approvare qualsiasi modifica al controllo israeliano su tutta la città.
C’è poi l’irrisolta questione dei profughi palestinesi. Oggi, il loro numero si aggira intorno ai circa 4,3 milioni. Di essi 1,6 milioni vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, il resto nei campi profughi e in altri Paesi arabi e non.
Fonte: L'Osservatore Romano
27/11/2007