Urne senza pace


Mario Pianta


Se passiamo dalla retorica ai seggi, scopriamo che nel prossimo parlamento siederanno forse una o due persone che conoscono i problemi della pace e i movimenti pacifisti, mentre la lobby militare industriale conterà una nutritissima delegazione in quasi tutti i gruppi parlamentari.


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Urne senza pace

Quando Walter Veltroni ha dato l’addio al Campidoglio, il suo discorso ci ha ricordato che il disarmo nucleare è una priorità assoluta delle politica internazionale. Da quando concorre alla carica di Presidente del consiglio, non solo il disarmo, ma l’intera politica estera – come ha denunciato l’altroieri la Tavola della Pace – è sparita da ogni programma e discussione elettorale (con una modesta eccezione nel caso della Sinistra Arcobaleno). Se passiamo dalla retorica ai seggi, scopriamo che nel prossimo parlamento siederanno forse una o due persone che conoscono i problemi della pace e i movimenti pacifisti, mentre la lobby militare industriale conterà una nutritissima delegazione in quasi tutti i gruppi parlamentari.
Se questo sarà l’esito elettorale, come sarà il voto che entrerà nelle urne? Il pacifismo ha sempre avuto un rapporto non facile con la politica. Si fonda su valori assoluti – la nonviolenza, la pace come condizione per la democrazia e lo sviluppo sociale – afferma che la sicurezza va assicurata con strumenti politici e non militari, nega che il fine giustifichi i mezzi. Difficile tradurre tutto questo in un programma elettorale e in un’azione di governo. Dagli anni ottanta il pacifismo ci ha provato a fondo, lasciando il pacifismo della testimonianza, che salva solo le coscienze individuali, e costruendo un pacifismo politico che si è misurato con la fattibilità concreta del rifiuto della guerra, degli sforzi per risolvere i conflitti internazionali, della riduzione delle spese militari. Questo pacifismo ha costruito, più che in altri paesi, una cultura politica diffusa, ha alimento i movimenti per una globalizzazione dal basso, ha riempito l’Italia del 2003 di bandiere arcobaleno. Un’identità forte e pervasiva di cui si sono accorti di certo i sondaggisti, ma che è del tutto invisibile nell’immagine dell’Italia che va oggi alle urne. Perchè la politica del centro-sinistra ha rinunciato a questo “capitale politico”? La prima ovvia spiegazione è nelle scelte del governo Prodi, che ha preso la strada opposta di aumentare le spese militari, moltiplicare le basi, da Vicenza al Salto di Quirra, finanziare le armi di Finmeccanica. La ragione più profonda è che riempire di pacifismo le urne avrebbe richiesto al Pd un rovesciamento completo di politiche e linguaggi, e alla Sinistra Arcobaleno un progetto non limitato all’alleanza di quattro vertici di partitini.
La fine della guerra fredda quasi vent’anni fa e la sconfitta oggi in Iraq del progetto di un’egemonia americana imposta dalla “guerra permanente” rappresentano due occasioni fondamentali per smilitarizzare la nostra politica e la nostra economia, e per rafforzare, su nuove basi, la sicurezza comune. Vent’anni fa la tentazione unipolare degli Stati uniti prevalse sulle promesse di “dividendi della pace”. Oggi l’occasione per una politica che dica “addio alle armi” si ripresenta, se solo qualche forza politica volesse accorgersene.

Fonte: il Manifesto

3 aprile 2008

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