Una democrazia globale partecipata: è possibile?


Piergiorgio Cattani - unimondo.org


Di fronte alle epocali sfide che investono il mondo, dai cambiamenti climatici al modello economico di sviluppo, la democrazia rappresentativa sembra aver fatto il suo tempo.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Una democrazia globale partecipata: è possibile?

Di fronte alle epocali sfide che investono il mondo, dai cambiamenti climatici al modello economico di sviluppo, la democrazia rappresentativa sembra aver fatto il suo tempo. Nessun politico che deve ricercare il consenso ad ogni tornata elettorale sosterrà gli impopolari ma necessari provvedimenti per affrontare queste sfide. Da due punti di vista diversi il filosofo Hans Jonas e il presidente della Fed Ben Bernanke pongono lo stesso problema. Ma se per quest’ultimo la politica fiscale potrebbe essere sottratta ai Parlamenti, il futuro si gioca invece sulla capacità di pensare nuove forme di partecipazione che non escludano il protagonismo dei cittadini e dei popoli.
È noto da sempre come il sistema democratico sia una creatura fragile della civiltà umana esposta com’è a nemici interni ed esterni. Mentre però è abbastanza agevole individuare i fattori interni che possono portare a un deterioramento della democrazia (disaffezione nei cittadini, pressioni sulla stampa, eccessive sperequazioni economiche, mancanza di autonomia della magistratura, monopoli e concentrazioni di potere, protagonismo dell’esercito fino a veri e propri progetti eversivi), è più difficile rendersi conto dei problemi che la democrazia “nazionale”, cioè tipica dei singoli Stati, e “partecipativa”, cioè basata sulle elezioni, deve affrontare nell’odierno contesto globalizzato. Si parla spesso, per esempio, delle multinazionali che hanno bilanci e fatturati maggiori di interi paesi e che hanno più potere di presidenti eletti democraticamente, in quanto i politici, per esercitare il proprio ruolo, devono sottostare a meccanismi lenti e farraginosi, inadatti alla velocità della società contemporanea.
Oggi emerge una questione ancora più radicale: la democrazia è il sistema migliore per affrontare problemi epocali come i cambiamenti climatici o come la necessità di elaborare un modello economico più giusto e soprattutto più sobrio? Era la domanda che quasi vent’anni fa si poneva Hans Jonas, il pensatore tedesco noto per le sue riflessioni sul rapporto tra uomo e natura e per la sua idea di responsabilità; la sua risposta in merito alla capacità di affrontare la crisi ambientale con politiche di ampio respiro era dubbiosa: “Essa (la democrazia) non è tanto orientata a ciò, quanto piuttosto al soddisfacimento degli interessi quotidiani e imminenti. Questo deriva semplicemente dal fatto che per l’elettore naturalmente è più importante la sua personale condizione occupazionale e di mantenimento nei prossimi anni che non il futuro del pianeta. È del tutto evidente che gli interessi a breve termine prevalgono dapprima sempre sui doveri a lungo termine. Non ho la minima idea di quale sistema ne sarebbe meglio capace, rispetto all’attuale democrazia” (Hans Jonas, Sull’orlo dell’abisso).
È singolare ritrovare considerazioni simili in un discorso del presidente della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, tenuto a Rhode Island ai primi di ottobre 2010. Analizzando con accenti preoccupati la crisi economica globale, Bernanke punta la sua attenzione sull’insostenibile situazione dei conti pubblici americani, sull’astronomico debito estero, sulla concreta possibilità di un’insolvenza statale nel settore previdenziale e nel comparto sanitario (un sistema già carente rispetto agli standard europei nonostante la riforma di Obama). La situazione potrebbe sfuggire di mano in ogni momento: occorrerebbe utilizzare la leva fiscale, aumentando le tasse, andando però contro uno dei dogmi più sacri del liberismo americano, oppure inaugurare un regime di sobrietà e di austerità. Le due strade sembrano sbarrate, proprio per colpa della democrazia rappresentativa. L’aumento delle tasse sarebbe lo strumento finale, l’ultima carta da giocare per affrontare un imminente disastro magari causato da eventi estremi (catastrofi naturali, rivolte sociali, guerre) che soli giustificherebbero davanti all’opinione pubblica la necessità di tali provvedimenti. Resta la sobrietà.
Ma è difficile varare le misure necessarie di austerità da rappresentanti politici (presidenti, governatori, senatori, deputati) che vengono eletti ogni quattro anni e che devono cercare i voti, evitando di appoggiare misure troppo impopolari. La soluzione è quella di “sottrarre” ai Parlamenti una parte di sovranità, specie in ambito economico, per attribuirla a organismi sovrastatali, legittimati non dal popolo ma in maniera indiretta, “protetti” dal bisogno di trovare ogni breve tempo il consenso. Bernanke fa l’esempio dell’Unione Europea e del nuovo patto di stabilità, varato nel maggio 2010, che non solo impone agli Stati membri vincoli di bilancio ma che dà alla Commissione Europea il potere di sanzioni e di direttive coercitive.
Gli esempi di Jonas e di Bernanke provengono da mondi lontanissimi e hanno finalità sostanzialmente diverse ma ambedue chiamano in causa la democrazia. È chiaro che per un rappresentante del mondo economico e bancario la democrazia potrebbe anche essere “sospesa” ma è altrettanto chiaro che bisogna progettare una governance globale basata su istituzioni sovranazionali e internazionali in cui però i cittadini e i popoli possano avere voce in capitolo. Sappiamo infatti quanto l’architettura istituzionale della UE, a volte fredda e burocratica, rischi di far aumentare la distanza con le persone comuni. Conosciamo le contraddizioni di organismi come il G8/G20, il WTO o l’FMI che diventano club esclusivi dei paesi ricchi o delle diplomazie lontane dai cittadini. Immaginare e creare una democrazia globale sono compiti ineludibili.
Al fondo resta il problema della partecipazione politica, assolutamente necessaria per affrontare le questioni più urgenti dal clima alla crisi: senza il consenso popolare non si va da nessuna parte. I livelli dunque devono essere due: quello globale di rafforzamento e riforma delle istituzioni esistenti (in primis l’ONU), e quello locale con la scommessa sulle nuove forme di partecipazione, fino ad arrivare a una democrazia partecipativa.

Fonte: Unimondo.org

25 ottobre 2010

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento