Tunisia tra Jihad e democrazia
NEAR EAST NEWS AGENCY
Attacchi espressione del legame tra le difficoltà del processo democratico e la crescita dei movimenti salafiti: gli esclusi che scesero in piazza nel 2010 ancora ai margini.
Il 26 giugno 2015, il secondo venerdì del mese di Ramadan, la Tunisia è nuovamente scossa da un brutale attacco jihadista. Armato di un kalashnikov e di granate, un giovane studente tunisino, lascia sulla spiaggia dell’Hotel Imperial Marhaba e lungo i bordi della piscina 39 cadaveri e altrettanti feriti. Sono passati soltanto tre mesi dall’attacco al museo di Bardo di Tunisi, in cui 22 turisti stranieri erano caduti vittime di un attacco con dinamiche molto simili.
La Tunisia è considerato dagli analisti e dalle cancellerie occidentali il paese modello del processo democratico sviluppatosi dopo le rivoluzioni del 2011. Allo stesso tempo i continui attacchi jihadisti e la presenza di circa 3000 tunisini nei campi di azione del jihad internazionale, mettono alla luce un paese in cui il salafismo jihadista ha assunto dimensioni importanti. Per molti osservatori si tratta di una contraddizione patente e pochi analisti sono riusciti a darne una spiegazione convincente.
Per poter capire meglio questo paese maghrebino, conviene mettere a fuoco quello che viene comunemente definito ‘processo democratico’. Le agitazioni rivoluzionarie del 2010-11, che avevano portato rapidamente alla caduta del sistema autoritario dello stato di Ben Ali, avevano liberato un soggetto di contestazione popolare e giovanile anti-sistemico. A parte le immagini idilliache passate attraverso i media di una ‘rivoluzione dei gelsomini’ bella, pacifica, moderna nelle sue rivendicazioni, ed in fondo così vicina ai nostri valori morali/politici, lo sconvolgimento rivoluzionario degli eventi del 14 gennaio 2011 avevano prepotentemente gettato sulla scena pubblica un soggetto sociale di esclusi. Mentre la classe media interpretava il cambiamento di regime nel senso di una trasformazione democratica, per la maggior parte della gente comune, rivoluzione o democrazia si intendeva pane e lavoro.
Senza avere un progetto politico che ne esprimesse le rivendicazioni, un vero e proprio soggetto sociale di esclusi ha tentato di far riconoscere le sue istanze. Poichè le attese sono state quasi da subito disattese, varie opportunità politiche si creano per un potenziale, vero soggetto rivoluzionario, che trasformi il disordine sociale in rovesciamento rivoluzionario. Per un tempo assai breve, nel 2011, il POCT, il partito comunista operaio, coltiva il mito dei comitati rivoluzionari, sul modello dei soviet durante gli avvenimenti rivoluzionari russi del 1917. In questo senso esso si dissocia dalle istituzioni democratiche/liberali che vengono istituite già da marzo e si erge a protettore della rivoluzione. Il tentativo di costruire dei comitati di difesa della rivoluzione come prolungamento dei comitati di quartieri sorti spontanei durante le giornate del sollevamento, fallisce rapidamente quando alla resa dei conti ci si accorge che la base popolare è molto più attratta dal progetto islamista.
Da quel momento i comunisti cambiano la retorica e traformano la rivoluzione in complotto neo-liberale, mentre gli islamisti del partito Nahda, dopo anni di lotta in semi-clandestinità, si integrano nel processo democratico e scelgono la democrazia liberale. Tra la fine del 2011 ed il 2012, dopo le prime elezioni costituenti, la piazza dei quartieri popolari viene lasciata ai salafiti, che emergono come forza nuova, giovane e vicina alla cittadinanza più umile. Il successo è tale che in pochi mesi Ansar al-Sharia, un nuovo gruppo salafita/jihadista, si propone come la forza di contestazione maggiore sulla scena politica.
Ansar al-Sharia è erede del movimento jihadista internazionale, che ha avuto Bin Laden come suo simbolo per tutto il decennio 2000, ma sarebbe un errore vedere in questo gruppo la pura imitazione di un modello importato dall’esterno. I giovani di Ansar al-Sharia rappresentano una nuova generazione, diversa da quella precedente e che per di più si confronta con una situazione unica, quale la Tunisia dell’apertura democratica. Il processo di contestazione e la libertà di espressione senza percedenti nel decennio 2011/2 porta al successo indiscusso del movimento, che tenta di sfruttare tutte le opportunità dovute al nuovo contesto di libertà senza scivolare nella violenza.
Fare la differenza tra Ansar al-Sharia e le varie tendenze del jihadismo internazionale e locale può sembrare un’attività bizantina, eppure è necessaria. Soprattutto perchè il punto di svolta del processo di democratizzazione, caratterizzato dalla radicalizzazione del movimento salafita da un lato e dal ritorno dell’apparato autoritario, coincide con i due assassini politici del 2013, di cui sono vittima due popolari leader di sinistra. Da questo punto in poi la Tunisia si inserisce in una strategia jihadista globale. Soltanto col tempo apparirà chiaro, grazie a ricostruzioni e confessioni, che un gruppetto di jihadisti, venuto in parte dalla Francia e dagli USA, e probabilmente appoggiatosi su frange radicalizzate del movimento salafita locale hanno eseguito questi assassini seguendo la famosa teoria (popolare in alcuni ambienti jihadisti) del ‘management of sauvagery’.
Molto simile ad altre teorie rivoluzionarie, questa spiega come alcune azioni di violenza politica mirata possono scatenare la contraddizione in un processo di trasformazione sistemico in cui le istituzioni sono indebolite. Se il colpo è fatto in maniera tale da creare una polarizzazione nella società (o il caos generalizzato), ciò può favorire la creazione di un’avanguardia islamica che prende il potere su richiesta popolare. Questa teoria è studiata sulla considerazione che le società arabe hanno uno strato sociale essenzialmente beduino, recalcitrante all’ordine statuale: soltanto la dawa, ovvero l’islam, possono ricondurre questa natura semi-anarchica ad uno spirito di corpo solo presupposto per l’emergenza della ‘civiltà’.
Quanto i pianificatori degli assassini politici abbiano davvero pensato a questa teoria nell’attuare i loro piani è abbastanza verosimile (almeno i servizi segreti tunisini ne sono convinti); questo scenario si sta realizzando sicuramente in Iraq ed in Siria in cui lo stato Islamico sta riuscendo ad imporsi come soggetto credibile di state building in una situazione di totale distruzione del tessuto societario, ed in cui tornano a primeggiare le alleanze tribali. L’evoluzione del jihadismo internazionale aggiornato alle rivoluzioni arabe è tuttavia più articolato e, ad una logica di avanguardia rivoluzionaria adottata dai jihadisti di ISIS, si è opposta una strategia politica del fronte islamico, in chiave nazionale piuttosto che internazionalista. Ansar al-Sharia in Tunisia (ma anche in Libia) e Jabahat al-Nusra in Siria rappresentano questa fattispecie.
Per restare alla Tunisia, quando, dopo gli assassini politici, frange estreme della sinistra tentano di ribaltare la situazione in loro favore e spingere il paese in un comitato di salute nazionale per scacciare gli islamisti moderati dal governo, Abu Ayadh, leader di Ansar al-Sharia (appoggiato da Al-Qaeda) fa un appello agli islamisti moderati del Nahda per la costituzione di un fronte islamico (questo scenario si ripeterà tal quale in Libia, in cui Ansar al-Sharia si schiera per un fronte unico con fajer al-Libia opposta alla coalizione nazionalista del generale Haftar).
Dopo mesi in cui il paese sembra scivolare sull’orlo del collasso, sullo sfondo di una polarizzazione crescente tra islamisti ed anti-islamisti, il Nahda, partito islamista di governo, rompe gli indugi e lascia per strada il gruppo salafita che verrà dichiarato organizzazione terroristica nel mese di agosto 2013.
Questo passaggio è fondamentale per capire sia l’evoluzione istituzionale del processo democratico sia la deriva terrorista dei gruppi salafiti/jihadisti che operano sulla scena di oggi. La criminalizzazione di Ansar al-Sharia, senza che essa abbia mai rivendicato i due assassini politici e senza nessuna seria verifica giudiziaria, ha portato all’inizio della spirale di violenza a di cui abbiamo assistito l’ultimo atto venerdì scorso a Soussa. Il processo democratico ha fatto fuori da quel momento in poi non solo l’unico soggetto realmente di contestazione rimasto sulla scena, ma ha rimesso in moto egualmente il processo di restrizione delle libertà pubbliche. L’esistenza di un partito islamico al potere costituisce la vera eccezione tunisina; il Nahda è tuttavia messo alle corde dalla reazione politica del blocco anti-islamico che si coalizza intorno al neo-bourghibista Caied Essebsi, e perde le elezioni.
Il processo elettorale, a termine di un percorso costituzionale bene o male portato a termine, rappresenta un grosso successo per il paese dei Gelsomini, esso tuttavia lascia per strada una parte consistente di quel blocco sociale, la cui dissidenza era stata alla base della caduta del regime. Il ritorno alla ‘normalità’ democratica fa emergere un paese spaccato in due, in cui buona parte della fascia giovanile ed emarginata non partecipa al processo elettorale. La lotta armata diventa un’opzione per una parte della componente salafista che si confonde talvolta con il lumpenproletariat dei quartieri popolari delle grandi e medie città del paese. Ansar al-Sharia scompare dalla scena ed in parte rifluisce in Libia, dove l’evoluzione del processo politico crea nuove opportunità. Dall’Algeria un nuovo gruppo, minuscolo questa volta, si infiltra in Tunisia e raccoglie coloro fra i jihadisti tunisini che decidono di sferrare l’attacco allo stato. Okba Ibn Nefaa è un sttoprodotto dello storico marchio qaedista nord-africano AQMI.
Al Qaeda, qui come altrove, sembra adottare una strategia più politica e le sue operazioni sono mirate ai corpi di sicurezza. L’attacco di Bardo e di Soussa sono attribuiti invece all’ISIS che, in una logica meno tunisina e più internazionalista, mirano ad espandere lo stato islamico verso ovest. Sebbene nella realtà concreta non è sempre così facile fare una distinzione netta sappiamo della costituzione di un nuovo gruppuscolo algerino, Junud al-Khilafa, che hanno dichiarato fedeltà al califfo al-Baghdadi, e che tentano di sottrarre militanti al gruppo rivale di fede AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), Okba Ibn Nefaa.
Questi due gruppuscoli, che raccoglierebbero in tutto 200 0 trecento membri (secondo fonti del Ministero degli Interni tunisino, sarebberro asserragliati nella zona montagnosa alla frontiera con l’Algeria. Sta di fatto che operazioni come quella di Bardo e di Soussa sono l’azione di individui formati altrove (forse in Libia) e che godono di un appoggio sicuro tra la popolazione locale. Questa permeabilità nel tessuto sociale li rende praticamente invincibile, soprattutto perché procurarsi un kalashnikov e delle granate non è particolarmente difficile.
Sebbene la deriva terroristica del salafismo tunisino ed internazionale ha come conseguenza sul medio periodo di isolare questi gruppi dalla popolazione facendogli perdere consenso, non siamo ancora in questo stadio. La crisi economica e la perdita di credibilità della classe politica oggi al comando nel paese rischia di rendere credibile l’opzione Stato Islamico. La prova che l’ISIS faccia politica sta nel fatto che nel perpretare attacchi contro i turisti, faccia meticolosa attenzione a non colpire tunisini; un’altra prova sta nel fatto che la voce si è sparsa in alcuni ambienti che con lo Stato Islamico ci sarà lavoro, stabilità e giustizia sociale.
Il governo Essid, in una conferenza stampa organizzata in fretta e furia dopo gli avvenimenti scioccanti di Soussa, ha annunciato misure straordinarie contro associazioni e partiti di matrice islamica, oltre che la presa sotto il controlllo dello stato di 80 moschee. Il governo, come una parte della società, fa fatica ad interpretare il fenomeno salafita/jihadista: l’improvvisazione di queste misure a caldo ne sono la prova. Si potrbbe dire che la stessa difficoltà esiste nei paesi occidentali in cui lo stesso fenomeno esiste. Il particolare che fa la differenza è che il salafismo, come il fenomeno islamista in generale, viene dal cuore delle società arabe e tunisina nella fattispecie. Le rievocazioni islamiche sono parte dell’immaginario collettivo di queste società. La strumentalizzazione dell’Islam a fini di rivendicazione sociale e politica ha percorso tutta la storia dei paesi arabo-musulmani e non dovrebbe meravigliare. Anzichè negare questa evidenza socio-politica, la società tunisina, l’intellighentia e la classe politica, farebbero meglio a trovare un modo per integrarla ed istituzionalizzarla, depotenziandola del suo lato più intollerante e violento.
Fonte: http://nena-news.it
30 giugno 2015