Tra conflitti e crisi, i nuovi terreni dei movimenti globali
Mario Pianta
Un G8 senza proteste, il presidente Usa osannato in un povero paese africano: che cosa è successo, otto anni dopo il G8 di Genova? Il conflitto sulle politiche globali ha preso nuove forme e quattro fatti nuovi hanno ridisegnato i terreni di scontro.
Un G8 senza proteste, il presidente Usa osannato in un povero paese africano: che cosa è successo, otto anni dopo il G8 di Genova? Il conflitto sulle politiche globali ha preso nuove forme e quattro fatti nuovi hanno ridisegnato i terreni di scontro.
Il primo elemento da cui partire è che i movimenti hanno avuto successo sul loro tema centrale, il rifiuto della globalizzazione neoliberista. Oggi la globalizzazione si è fermata, calano commercio e investimenti esteri, la bolla finanziaria è scoppiata e il liberismo è diventato impronunciabile anche nelle istituzioni che l'avevano imposto per vent'anni. Il movimento, insomma, ha sconfitto il "pensiero unico" del mercato, gli stati e la politica assumono una nuova centralità, l'ordine mondiale
prende una forma policentrica, Cina, India, Brasile diventano nuovi protagonisti. Gli argomenti che otto anni fa circolavano solo al Forum sociale mondiale si leggono ora negli articoli dei premi Nobel per l'economia e Papa Ratzinger, nella nuova enciclica Caritas in veritate, scrive che si deve considerare "l’alimentazione e l’accesso all’acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani".
Il secondo fatto nuovo nasce da una grande vittoria politica, l'elezione di Barack Obama negli Stati Uniti. Con un presidente che si era opposto alla guerra in Iraq e ora progetta interventi dello stato, un'economia verde e un sistema sanitario pubblico, l'agenda dei movimenti di protesta è diventata un elemento di politica condivisa. Sulla scena mondiale i discorsi di Obama in Egitto e in Ghana hanno delineato rapporti del tutto diversi con il mondo islamico e l'Africa, e le iniziative sull'economia, il clima e il disarmo aprono la strada a un sistema multilaterale in cui – con la grave eccezione dell'Afghanistan – si ridimensiona il ruolo della guerra nella politica internazionale. Certo, anche Obama ha l'obiettivo di rallentare il declino dell'egemonia Usa, ma il modello non è più l'unilateralismo, la guerra permanente, lo scontro di civiltà promosso dagli Stati uniti di George W. Bush.
Il terzo fatto nuovo, che consegue ai precedenti, è che i movimenti globali non si trovano più a operare sul terreno, fortemente ideologico, che chiamava alla resistenza contro guerra e neoliberismo. Ora si tratta di immaginare e realizzare il "post-liberismo", crisi mondiale compresa. E per questo serve entrare nel merito dei singoli problemi – movimenti di capitali, paradisi fiscali, tutele del lavoro, cambiamenti climatici, riduzione delle armi e così via -, costruire alternative credibili, avanzare proposte concrete, un lavoro che le reti internazionali di società civile non hanno mai smesso di fare. Per influenzare le politiche globali serve capire come cambiano i luoghi delle decisioni, costruire alleanze con governi "illuminati", muovere l'opinione pubblica mondiale. Le manifestazioni sono meno necessarie, e i rapporti con la politica – nazionale e globale – servono di più.
La quarta novità è, naturalmente, la crisi mondiale, che ha messo in difficoltà i movimenti proprio quando dimostrava quanto avessero ragione i critici del neoliberismo. La crisi ha portato sulla porta di casa di ciascuno, in modi tutti diversi, contraddizioni che prima erano viste da lontano – l'ingiustizia globale – e rappresentate in modo unificante. Così la crisi divide i soggetti sociali – associazioni, sindacato, giovani, reti di solidarietà – che avevano animato i movimenti globali e lascia ciascuno ad affrontare un problema particolare – i licenziamenti, il precariato, i mancati aiuti al Sud del mondo – in un contesto nazionale fatto di politiche frammentate. In tutti i paesi europei non mancano le manifestazioni di protesta contro la crisi di singoli gruppi colpiti in modo particolarmente grave – dal sequestro dei dirigenti in Francia ai blocchi stradali a Termini Imerese. Quello che manca ai movimenti è invece un quadro comune per rappresentare la crisi che sia capace di legarne cause ed effetti collettivi, offrire possibilità di cambiamento politico e innescare una mobilitazione di massa per realizzarlo.
Per i movimenti globali questi fatti nuovi hanno cambiato le possibilità di mobilitazione, le priorità nelle azioni internazionali, i rapporti con la politica. Il tramonto della globalizzazione neoliberista e della guerra permanente hanno fatto venir meno la necessità di una mobilitazione continua, il successo su questi temi ha ridotto le energie dedicate a campagne transnazionali. Gli eventi della politica globale hanno perso di carica simbolica – i vertici di pochi potenti della Terra a cui contrapporrre le voci di sei miliardi di persone – e assunto un ritmo di intensa e confusa routine, in cui è più difficile cogliere i momenti delle decisioni importanti.
Per le organizzazioni della società civile, l'emergere della nuova agenda "post-liberista" ha richiesto di approfondire competenze e proposte su temi specifici della politica globale, mentre passano in secondo piano le campagne unificanti e i grandi appuntamenti come il Forum sociale mondiale. C'è chi si impegna nel lobbying di governi e organizzazioni internazionali per introdurre piccoli miglioramenti, chi lancia nuove campagne di opinione. Ma l'esperienza degli ultimi anni ha insegnato che i movimenti hanno successo quando riescono a unire in modo coerente più forme d'azione, proteste, proposte e pratiche alternative. Tutto questo rende più urgente e importante il rapporto con la politica – nazionale e globale – ma questo resta il fronte su cui è più difficile realizzare cambiamenti, e non solo nel disastrato caso italiano.
In queste trasformazioni, i movimenti globali non ottengono più l'attenzione mediatica del passato, sembrano quasi uscire di scena per chi non riesce a vedere i nuovi terreni dei confliti globali. Tra questi ci sono coloro che si attardano a proporre prove di forza nei cortei e rappresentazioni "militari" del conflitto e, specularmente, c'è l'inasprimento della repressione poliziesca: due copioni troppo noti che abbiamo visto riproposti anche nelle settimane scorse.
I conflitti restano, ma si apre una fase in cui la politica globale si fa più frammentata e concreta, molti movimenti tornano a lavorare su scala nazionale – dove esistono i vecchi strumenti per rispondere alla crisi, e a concentrarsi su temi specifici – il lavoro, l'acqua, l'ambiente, la finanza. E' questa la risposta immediata, difensiva, ai colpi della recessione, ma il nuovo di questa crisi è la sua natura mondiale. Costruire risposte comuni alla crisi, in uno spazio pubblico globale, resta il compito che aspetta i movimenti per un altro mondo possibile.
Fonte: il Manifesto
18 luglio 2009