Toni, inviato di guerra che amava la pace
Gabriel Bertinetto
La Tavola della pace ricorda Toni Fontana ad un anno dalla sua scomparsa. Se fosse ancora con noi ci avrebbe concesso la narrazione aggiornata, appassionata e obiettiva dei drammatici avvenimenti di Libia.
Se Toni Fontana fosse ancora tra noi, i lettori oggi troverebbero probabilmente sulle pagine de l’Unità la narrazione aggiornata, appassionata e obiettiva dei drammatici avvenimenti di Libia. Perché guerre, rivolte, sommosse, sconvolgimenti politici sociali e civili, erano gli argomenti in cui si era, per così dire specializzato, attraverso anni e anni di lavoro, Toni, scomparso improvvisamente giusto un anno fa. Affrontando quei temi, dava il meglio di sé. E questo per la ragione esattamente opposta a quella che ci si aspetterebbe, immaginando il nostro collega incastonato nel cliché dell’inviato di guerra: una persona un po’ esaltata, un po’ cinica, che trova una qualche forma di sottile piacere a contatto con situazioni di caos e di violenza. Una caricatura, più che un identikit. Descrizione infedele ma abbastanza comune, dell’atteggiamento con cui i giornalisti affrontano il compito loro affidato mandandoli in zone di conflitto.
Nel caso di Toni quella descrizione sarebbe non solo infedele, ma ingiusta. Perché nell’affrontare quei temi, indulgeva poco al folklore militaresco delle armi e delle sparatorie. Lo sguardo del cronista si soffermava piuttosto sulla sofferenza delle vittime. Senza misurarne il peso, a seconda che la vittima fosse un liberatore, un servo dei tiranni, o un essere umano coinvolto in uno scontro al quale avrebbe preferito rimanere estraneo. Quando incontra i soldati di Saddam fatti prigionieri dagli americani nell’Iraq meridionale, marzo 2003, quegli uomini appaiono ai suoi occhi come nient’altro che poveri esseri affamati, infreddoliti, impauriti. Meritano rispetto e compassione.
Era così Toni Fontana. Nell’osservare gli eventi non si lasciava intrappolare dall’ideologia e dalla partigianeria. Nella dialettica a volte complicata del torto e della ragione, non si esimeva dal distinguere fra chi agiva dalla parte giusta, o meno sbagliata che fosse, e chi no. Ma sapeva collocare gli eventi in una prospettiva che ne rispettava la complessità e la relatività. Viene in mente un altro reportage, ancora dall’Iraq, Paese che frequentò ripetutamente, in pace e in guerra. È il 9 aprile 2003. A Baghdad viene buttata giù la statua di Saddam. Il regime crolla. Toni e altri colleghi arrestati tredici giorni prima a Bassora e tenuti prigionieri per tutto quel tempo in un albergo della capitale, riacquistano la libertà. L’inviato dell’Unità descrive la festa in piazza. Ma nota che la gente è poca, domina la paura più che la gioia. E dà voce ai civili che «ci chiedono con angoscia ma anche con speranza che cosa potrà accadere, cosa sbucherà dalle macerie, dall’odio, dalle trincee riempite di petrolio e incendiate per annebbiare la vista ai piloti dei caccia, cosa verrà fuori dai crateri che hanno inghiottito donne e bambini innocenti. Un nuovo ordine si sta sostituendo a quello dello spionaggio, della dittatura, della vessazione, della tortura. Vedo dissolversi un regime ma ancora non si può intravedere quale sarà il futuro». Peccato Toni non sia più qua per aiutarci a capire quanto sia difficile capire il mondo.
Fonte: l'Unità
1 settembre 2011