Thailandia, torna la calma, ma il paese rimane diviso
Junko Terao
Le proteste sono finite e le magliette rosse pro-Thaksin hanno lasciato la sede del Governo davanti a cui erano accampati da settimane.
E’ tornata la calma a Bangkok e finalmente per le strade sono iniziati i festeggiamenti per il Songkran, il capodanno thailandese. Con i tradizionali gavettoni al posto dei lacrimogeni, la capitale cerca di riprendersi: l’assedio delle magliette rosse fuori dalla sede del governo è finito, la protesta è rientrata e la paura anche. Dopo tre giorni di fuoco e di tensione a mille, un centinaio di feriti e due morti, la Thailandia cerca in qualche modo di rimettersi in piedi, anche se della presunta stabilità politica raggiunta a dicembre con l’insediamento del nuovo governo rimangono solo i cocci. Il tentativo del movimento pro-Thaksin di ripercorrere i passi del Pad (Alleanza del popolo per la democrazia) che a novembre riuscì, con una grande e inattesa mobilitazione di massa, a far cadere il governo di Somchai Wongsawat, è fallito ma la frattura nel Paese è più che mai evidente. Ieri, intorno a mezzogiorno, le magliette rosse hanno cominciato a raccogliere baracca e burattini dopo essere rimasti per settimane accampati nello spazio antistante al palazzo governativo. Se ne sono andati alla spicciolata, coi poster di Thaksin Shinawatra in spalla accompagnati dalla musica di sottofondo. Una ritirata pacifica sotto la supervisione di esercito e polizia, anche se solo poche ore prima i manifestanti promettevano di resistere a oltranza, fino al raggiungimento dei loro obbiettivi: primo fra tutti la testa del premier Abhisit Vajjajiva. Ma la decisione di ritirarsi è arrivata poco dopo, “per salvare vite umane” a detta del leader delle magliette rosse, Jakrapap Penkair, secondo alcuni il vero macchinatore delle proteste che in caso di elezioni potrebbe presentarsi al posto di Thaksin. Molti di loro torneranno nelle campagne da cui erano venuti, bacino di consenso dell’ex-premier Thaksin Shinawatra. Che, lunedì, dall’esilio ha parlato ancora, rilasciando un’intervista alla Bbc in cui ha ripetuto i leitmotiv con cui ha incitato le migliaia di magliette rosse nei giorni scorsi: “lotta per la democrazia” e “preoccupazione per i poveri”. I suoi interventi telefonici gli sono costati un mandato d’arresto per istigazione alla violenza e alla violazione della quiete pubblica, un’accusa che potrebbe costargli fino a sette anni di carcere. Accuse rivolte, insieme a quella per assembramento di oltre dieci persone, anche a tredici manifestanti che hanno condotto le proteste dei giorni scorsi. Quattro di loro si sono già arresi alle forze di polizia e rischiano fino a cinque anni di prigione. Secondo le dichiarazioni di uno degli arrestati, Nattawut Sikur, la polizia avrebbe intenzione di trasferirli in isolamento in un campo militare, consegnandoli quindi all’esercito. Thaksin, da parte sua, nega le accuse di istigazione e continua a ripetere di aver semplicemente espresso il suo sostegno alla “rivoluzione per la democrazia”. All’ex-premier, destituito con un colpo di Stato incruento nel 2006, sta per scadere il passaporto e il leader della comunità islamica thailandese ha fatto sapere che chiederà all’emiro di Dubai, uno dei Paesi che lo ospitano in esilio, di espellerlo in seguito all’ondata di proteste che ha destabilizzato il Paese. Passata la paura, per il governo di Bangkok è l’ora di fare i conti con la realtà di un popolo diviso in due. «Rimarremo in guardia», ha dichiarato il primo ministro Abhisit, «le operazioni sotto lo stato di emergenza non sono ancora terminate. Ci sono altre cose da fare e il governo rimarrà vigile». Parole che lanciano un chiaro messaggio di avvertimento a chiunque intenda riprendere con i disordini, anche se questo round di proteste sembra ormai terminato. La sfida che Abhisit si trova ora di fronte, e che finora ha mancato, è quella di persuadere la popolazione delle fasce più basse, che stravede per il sel- made man Thaksin e che vede nell’attuale premier, educato all’estero – Eaton e Oxford -, un figlio dell’aristocrazia manovrato dall’esercito. Il suo più grande punto debole è il fatto di essere salito al potere grazie alle proteste popolari delle magliette gialle del Pad e all’intervento della Corte, che gli ha spianato la strada dichiarando fuorilegge due partiti della coalizione del precedente governo, democraticamente eletto. Per come stanno oggi le cose, in caso di elezioni Abhisit e i Democratici rischierebbero grosso. Per ora il premier si è ripreso dallo smacco dell’annullamento del vertice Asean sedando le proteste nel giro di due giorni senza eccessivo spargimento di sangue. Ma la strada è tutta in salita, con la crisi economica che avanza e promette un anno durissimo per il Paese.
Fonte: Lettera22
15 aprile 2009