Summit di Parigi: sospiro di sollievo per Israele
Roberto Prinzi - Nena News
Nel testo finale non c’è nessuna menzione della risoluzione 2234 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro le colonie, né un riferimento al pericolo derivante da un eventuale spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme. Il vertice invita le due parti ad un generico impegno per la soluzione a due stati.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu da ieri sera ha tutto il diritto di festeggiare: i (possibili) timori delle ultime settimane riguardo al summit di Parigi sul conflitto israelo-palestinese si sono dissolti come neve al sole nella serata di ieri. Le “minacce” e i “colpi di coda di Obama” che non pochi commentatori annunciavano si sono trasformate alla fine in carezze per lo stato ebraico. La dichiarazione finale, sostenuta da 70 paesi, è un capolavoro della diplomazia: dice tutto per non dire nei fatti nulla. Le parole sono le solite: israeliani e palestinesi devono impegnarsi per raggiungere la pace e smetterla con le azioni unilaterali che potrebbero “precludere fruttuosi negoziati”. Il comunicato finale recita inoltre che “entrambe le parti riaffermano ufficialmente il loro impegno alla soluzione a due stati” e si dissociano da quelle forze che non riconoscono questo obiettivo.
Nel testo non c’è nessuna menzione dei punti che Tel Aviv considera “problematici”: della risoluzione 2234 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu contro le colonie israeliane votata lo scorso 23 dicembre (senza che gli Usa ponessero il veto) non vi è infatti alcuna traccia. Le autorità israeliane possono rallegrarsi anche della conversazione telefonica tra il Segretario di Stato Usa Kerry e Netanyahu durante la quale l’alto diplomatico americano ha promesso all’alleato che non sarà intrapresa alcuna azione contro gli insediamenti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In pratica non verrà dato seguito a quanto è stato votato al Palazzo di Vetro soltanto meno di un mese fa.
Per Tel Aviv il successo ottenuto a Parigi (pur non avendo partecipato all’incontro) è il “risultato delle dure reazioni” del suo governo dopo il passaggio della 2234. Il testo finale del summit, dagli israeliani definito un “significativo indebolimento” rispetto a quanto temevano, è motivo di orgoglio per i padroni di casa francesi che, con il loro ministro degli esteri Ayrault, hanno sottolineato “l’urgenza” di agire per scongiurare “la minaccia che incombe sulla soluzione a due stati”. “Peggiorare questo conflitto – ha aggiunto – sarebbe un dono per gli estremisti”. La conferenza di pace, secondo il capo del Quai d’Orsay, rappresenta invece una “mano tesa” verso la creazione di due stati, uno palestinese affianco a quello israeliano.
Che il summit di Parigi si sia concluso con un successo per gli israeliani è reso evidente anche da un altro elemento: i paesi arabi non sono riusciti ad inserire nella dichiarazione finale l’impossibilità per l’entrante presidente americano Trump (si insedierà tra cinque giorni) di spostare l’ambasciata statunitense a Gerusalemme. I rappresentanti arabi sono stati costretti alla fine a cedere e in cambio hanno ricevuto briciole: Ayrault ha infatti detto che una tale decisione “sarebbe gravida di conseguenze” e si tratterebbe di “provocazione”. Parole vaghe, insomma, nulla di concreto. Tra l’altro solo dalla Francia perché gli altri leader europei presenti hanno preferito non affrontare il tema.
Soddisfazione per il risultato del vertice è stata espressa anche dal ministro degli Esteri Alfano che ha sottolineato il “contributo” determinante dell’Italia nell’inserimento nella dichiarazione finale di almeno due elementi precisi: le violenze e l’incitamento al terrorismo per cui vengono messe in guardia entrambe le parti. E, in secondo luogo, perché è emersa “una posizione equilibrata”. Alfano ha poi chiosato: “C’è il tema di chi incita alla violenza e chi considera eroi o martiri i terroristi. Finché sarà così, non ci sarà pace e sicurezza in Israele”. Una dichiarazione, quest’ultima, che testimonia nella sua disarmante semplicità con chi Roma si schieri segnalando la profonda continuità anche in campo internazionale del governo Gentiloni con quello Renzi.
La Conferenza di Parigi, che era stata convocata ufficialmente per rianimare un processo di pace moribondo, incorona e di fatto legittima lo status quo attuale che è alla base della “stagnazione politica” denunciata dai francesi. Uno status quo, però, che è più a parole che nei fatti: lo stato ebraico continua a modificare la realtà sul terreno annunciando e costruendo nuovi insediamenti e demolendo case palestinesi nei Territori Occupati e in Israele. E’ stata dunque un graditissimo e forse inatteso regalo per Netanyahu (un dono sicuramente più gradito di quelli per cui è sotto inchiesta) che temeva un dispetto dell’amministrazione Obama uscente dopo i rapporti tesi di questi anni.
Un timore che il leader israeliano aveva provato a scongiurare screditando e minimizzando l’importanza del summit (lo aveva definito “un passo indietro” e “futile”). Negli ambienti governativi israeliani non erano in pochi quelli che ritenevano che da Parigi potesse uscire fuori un documento troppo “sbilanciato” che desse legittimità alla risoluzione “anti-israeliana” del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Un’eventualità che però la diplomazia ha voluto in tutti i modi sventare. A maggior ragione ora che mancano solo quattro giorni all’insediamento di Trump alla Casa Bianca: un evento, quest’ultimo, che sicuramente avrà pesato sulle conclusioni inutilmente retoriche per i palestinesi.
Per i palestinesi, non per l’Autorità palestinese che invece (è un caso?) ha accolto con favore i risultati del vertice. “E’ un messaggio per Israele, la potenza occupante, che deve rispettare il diritto internazionale e quello umanitario e porre fine alla sua occupazione militare della Palestina e raggiungere la pace e la stabilità nella regione” ha dichiarato in serata l’alto ufficiale palestinese Saeb Erekat. Erakat ha chiesto alla Francia e agli altri Paesi presenti a Parigi di riconoscere immediatamente lo Stato di Palestina nei confini del 1967 con Gerusalemme est come capitale.
Tra strette di mano e sorrisi tra i 70 diplomatici giunti nella capitale francese, l’unica voce fuori dal coro è stata quella britannica che si è rifiutata di firmare la dichiarazione finale. Londra, tramite il suo portavoce degli Esteri, ha fatto sapere di avere “particolari riserve”: per il governo inglese, infatti, c’è il rischio che questa conferenza possa irrigidire in futuro le posizioni palestinesi in campo negoziale.
Roberto Prinzi è su Twitter @Robbamir
Fonte: http://nena-news.it
16 gennaio 2017