Sud Sudan, bloccate quel petrolio
Irene Panozzo, Lettera 22
Il governo sudsudanese ha deliberato venerdì in favore dello stop totale all’estrazione e all’esportazione di petrolio, che dovrebbe diventare operativo tra due settimane. E che rimarrà in vigore fino a nuovo ordine.
Quanto è ragionevole, per un paese la cui economia dipende al 98% dalle entrate petrolifere e che è tra i più poveri al mondo, decidere di bloccare la sua intera produzione di greggio? Poco, pochissimo. Eppure è proprio questa la decisione senza precedenti che il governo della neonata repubblica del Sud Sudan ha preso nei giorni scorsi: il consiglio dei ministri di Juba ha deliberato venerdì in favore dello stop totale all'estrazione e all'esportazione di petrolio, che dovrebbe diventare operativo tra due settimane. E che rimarrà in vigore fino a nuovo ordine, che, ha spiegato il ministro per il petrolio e le attività minerarie, Stephen Dhieu Dau, arriverà solo quando il governo del vicino Sudan, dal quale Juba si è staccata il 9 luglio scorso, accetterà “un compromesso equo”. Oppure quando il Sud Sudan avrà delle nuove infrastrutture che lo rendano indipendente da quelle sudanesi.
Come si è arrivati a tanto? È presto detto: il Sud Sudan non ha sbocchi al mare e per trasportare e vendere la sua risorsa principale – ovvero circa il 75% dei 500mila barili al giorno che il Sudan unitario produceva – deve fare affidamento sulle infrastrutture petrolifere del vicino settentrionale: un oleodotto di 1600 km, le raffinerie, il porto di Port Sudan. Dal trattato di pace del 2005, che ha posto fine alla guerra civile ventennale tra le due regioni, le entrate petrolifere sudsudanesi sono state spartite fifty-fifty tra il governo centrale a Khartoum e quello autonomo di Juba. Con l'indipendenza del Sud l'obbligo di spartire i proventi petroliferi è caduto. Ma è diventato necessario trovare un accordo sulle tariffe che il Sud Sudan deve pagare per utilizzare le infrastrutture che gli investitori stranieri, prima tra tutti la Cina, e il governo del Sudan hanno costruito alla fine degli anni Novanta.
I negoziati, iniziati più di un anno fa, non hanno ancora dato nessun risultato, né su questa né sulle altre questioni rimaste in sospeso dopo la nascita del nuovo stato (il confine, la spartizione del debito estero, i diritti di cittadinanza dei sudsudanesi al Nord e dei nordsudanesi al Sud e via dicendo). Le divergenze sulle tariffe da pagare, con Juba che vuole adeguarsi agli standard internazionali e Khartoum che invece chiede 32 dollari al barile, quindi circa un terzo del suo valore, non hanno impedito al Sud Sudan di continuare a esportare il suo petrolio dopo il 9 luglio. Accumulando così debiti nei confronti del Sudan e aggiungendo controversia a controversia: se le tariffe non sono fissate, il debito di Juba non può essere definito in modo univoco. E quindi anche la decisione di Khartoum, che a dicembre è passata alle vie di fatto requisendo una parte del greggio sudsudanese come compensazione, ha contribuito a rendere ancora più tesi i rapporti tra i due governi.
L'ennesimo round negoziale, che si è aperto nei giorni scorsi ad Addis Abeba, è quindi iniziato nel peggiore dei modi, con scambi di accuse e conti che non tornano da entrambe le parti. La decisione di Juba di bloccare la produzione petrolifera è stata probabilmente pensata come strumento di pressione. Sul governo di Khartoum, ma anche su Cina, India e Malaysia, i principali investitori del settore petrolifero dei due Sudan, affinché intervengano direttamente per favorire un compromesso. Il governo di Pechino, che già aveva criticato la decisione di Khartoum di iniziare a requisire il petrolio sudsudanese, ha immediatamente reagito, chiedendo di nuovo alle parti di mantenere la calma, evitare di adottare misure estreme e continuare i dialoghi.
Ma la Cina e gli altri operatori stranieri potrebbero fare di più: Dau inizierà già nei prossimi giorni a sentire le compagnie petrolifere presenti nel paese per mettere a punto un progetto per un oleodotto che, attraverso l'Uganda o l'Etiopia, arrivi in Kenia, al porto di Lamu, aprendo così al petrolio sudsudanese una via alternativa verso l'Oceano Indiano. Un progetto finora lasciato in sospeso, per i costi e le difficoltà logistiche. Ma che ora Juba considera “la priorità nazionale”.
Fonte: www.lettera22.it
22 Gennaio 2012