Strage al ristorante
Emanuele Giordana
Alzano il tiro i talebani che agiscono nella capitale. E mettono a segno un attentato che, per la prima volta, sceglie come obiettivo un ristorante di alto bordo comunemente frequentato da internazionali.
Alzano il tiro i talebani che agiscono nella capitale. E mettono a segno un attentato che, per la prima volta, sceglie come obiettivo un ristorante di alto bordo comunemente frequentato da internazionali. Il colpo riesce in piena regola venerdi sera perché il bilancio è elevatissimo: 21 persone di cui 13 sono internazionali e, tra questi, due funzionari di rango: il rappresentante a Kabul del Fondo monetario, il libanese Wabel Abdallah, e Vadim Nazarov, incaricato degli affari politici di Unama, la missione Onu a Kabul. Tra le altre vittime internazionali – tutte civili – altri funzionari delle Nazioni Unite, due studenti americani, altre nazionalità che lavorano nella capitale. I morti afgani invece, a parte Kamal Hamade, padrone della Taverna du Liban, il ristorante preso d’assalto, sono sguatteri o personale della sicurezza. Effetti collaterali dell’azione terroristica.
La taverna libanese, aperta da qualche anno e considerata uno dei ristoranti più cari e charmant della capitale, è una delle poche mete dove è consentito ai funzionari internazionali andare a cena per uscire ogni tanto dalle maglie di una vita segregata condotta tra macchine blindate e ostelli con muraglioni in cemento. La taverna muraglioni non ne ha. Solo una porta di metallo attraverso cui si passa il tradizionale check e si depositano, per chi le ha, le armi in custodia. Poi si accede a un paio di ampi saloni, uno dei quali affaccia sulla strada, una piccola traversa del quartiere di Wazir Akbar Khan, zona esclusiva e tranquilla di palazzine, sedi di ambasciate, residenze di diplomatici, uffici tra cui quello di un’importante network televisivo, case di ministri o funzionari. Per passare la porta, l’unica vera separazione tra la strada e il rinomato locale di delicatezze libanesi, un kamikaze si fa esplodere. Immediatamente due “martiri”, destinati di lì a poco a essere falciati, entrano nel locale e sparano all’impazzata. Colpiscono nel mucchio. Poi vengono abbattuti. Intanto cuochi e camerieri, rifugiatisi al secondo piano, hanno chiamato la polizia e si sono messi in salvo gettandosi dalla finestra. Il quartiere è ipersorvegliato e forse i due kamikaze, se non sono stati abbattuti da qualche guardia riuscita a sfuggire ai loro colpi, son stati falciati da uno dei tanti contractor che presidiano metro per metro il quartiere.
I messaggi di condanna e solidarietà arrivano rapidi e inequivocabili: da New York, Bruxelles, dai governi dei Paesi cui appartengono le vittime (Canada, Usa, Gb, Libano, Russia, Danimarca). Non è la prima volta che gli internazionali muoiono a Kabul, ma mai così tanti e, soprattutto, mai colpiti in un locale frequentato non espressamente solo da alti ranghi militari o dei servizi. In passato i talebani hanno colpito guest house (come nel maggio scorso) e hotel (il Serena nel 2008 e l’Intercontinental nel 2011) dove sostenevano vi fossero militari o agenti dei servizi ma non si erano mai spinti a colpire nel mucchio, in una pura logica di terrore.
L’azione, che i talebani rivendicano come rappresaglia per il raid aereo di qualche giorno fa a Parwan, denuncia dunque un salto di qualità: una voluta confusione che mette assieme militari, civili, funzionari e umanitari. Ma sembra denunciare anche un’evidente debolezza. I talebani otterranno che nessuno esca più di casa e che lo sgomento aumenti tra gli internazionali e le loro famiglie. Ma per la prima volta in maniera netta i “civili” e gli afgani ignari e innocenti non sono più effetti collaterali. Diventano obiettivo. I talebani hanno sparato nel mucchio, scelto un obiettivo facile, frequentato da civili e non da militari e se volevano uccidere un alto funzionario dell’Onu e del Fmi (ma come potevano esserne certi?), hanno ucciso anche studenti stranieri, umanitari, camerieri. Una logica che sembra appartenere più a una fazione ultraestremista che al movimento talebano della shura di Quetta. E che denuncia la coscienza che solo il terrore può far vincere qualche battaglia perché non è il 1996 quando i talebani presero Kabul all’inettitudine litigiosa delle bande mujaheddin.
L’elemento confusione non sfugge a Karzai che, nell’esprimere solidarietà, commenta la vicenda richiamando lui pure il raid di qualche giorno fa: «La guerra al terrore dà frutti quando le vittime si distinguono le une dalle altre… se la Nato, guidata dagli Stati Uniti, vuole essere alleata del popolo afgano, deve avere come obiettivo il terrorismo». Non sparare nel mucchio, come sempre più fanno i talebani. Come è accaduto venerdi.
Fonte: http://emgiordana.blogspot.it
19 gennaio 2014