Sotto attacco Bil’in, il villaggio pacifista che resiste al muro di Israele
Luisa Morgantini
Israele vuole fermare la lotta non-violenta e l’unità che si è creata tra Palestinesi, Israeliani e internazionali, che da più di quattro anni manifestano per cercare di fermare la costruzione del muro: negli ultimi tempi, infatti, si susseguono gli arresti sistematici e veri e propri sequestri di attivisti a Bil’in da parte di soldati Israeliani.
Irruzioni nel cuore della notte, con veicoli militari che attraversano nel buio quella barriera illegale che è il Muro di Apartheid. Decine e decine di soldati, armati di tutto punto strisciano a terra per non essere visti. Procedono lentamente, senza luci, mimetizzati con divise scure e maschere nere sul volto. Arrivano nel cuore di Bil’in attraversando strade e campi. Circondano le case distruggendo tutto quanto incontrano sul loro cammino, sequestrano le persone, inclusi ragazzini di 15 e 16 anni, confiscano documenti, telefoni cellulari e affetti personali degli arrestati.
Anche questo ultimo venerdì un quindicenne è stato prelevato da casa alle tre del mattino, mentre durante la manifestazione gli attivisti sono stati attaccati con uno strano tipo di acqua maleodorante, probabilmente contenente sostanze chimiche dagli effetti urticanti e dall’odore soffocante.
E’ questo lo stesso copione che si svolge anche in altri villaggi della Cisgiordania, ma Bil’in è diventato un simbolo: il villaggio -dove il muro della vergogna confisca il 49% delle terre- nelle ultime settimane è diventato teatro di un’ulteriore intensificarsi di queste operazioni, delle vere e proprie operazioni di guerra, ai danni di attivisti del Comitato popolare di resistenza non violenta, uomini e donne, civili, che resistono in modo non-violento, pacifico e creativo contro muro e occupazione.
Spesso gli attivisti di Bil’in rimangono di vedetta sui tetti del villaggio per poter avvisare gli altri dell’incombere dei raid che di solito coinvolgono circa 100 soldati israeliani divisi in gruppi di 20-30 uomini, ognuno dei quali circonda a varie ore della notte le case di Palestinesi accusati di lanciare pietre. Nelle scorse tre settimane, 17 giovani attivisti sono stati arrestati, di questi 15 erano Palestinesi, uno israeliano, in seguito rilasciato, e uno americano secondo quanto riporta un documento di denuncia dell’escalation di violenza a Bil’in, diffuso da Miftah, Iniziativa Palestinese per la promozione del Dialogo e della democrazia.
Ho visto con i miei occhi i moltissimi feriti alle manifestazioni che ogni venerdì si svolge a ridosso del cantiere del muro e durante le quali i soldati israeliani utilizzano bombe sonore, candelotti di gas lacrimogeno, gas chimici e urticanti, io stessa sono stata più volte intossicata da quei gas, mentre proiettili di gomma venivano spesso sparati ad altezza d’uomo.
Il 19 aprile scorso Bassem Abu Rahmah, 30 anni, manifestante pacifista palestinese, è stato colpito a morte al petto da un proiettile di gas lacrimogeno sparato da un soldato israeliano durante la manifestazione pacifica: un uso evidentemente eccessivo e disumano della forza contro manifestanti disarmati. La settimana successiva all’assassinio di Bassem, sono stata diverse volte a Bil’in con il Comitato Popolare. Insieme abbiamo manifestato e siamo riusciti a costruire una tomba simbolica nel luogo dove era stato ucciso. Lo abbiamo fatto sotto il fuoco dei candelotti lacrimogeni e quando siamo riusciti a terminarla, ponendo la lapide con il nome di Bassem, eravamo felici di aver resistito ai lacrimogeni. Che paradosso esser felici di aver costruito una tomba!
Nel tentativo di smantellare il movimento, i militari israeliani colpiscono deliberatamente i giovani: dal 23 al 25 giugno quattro adolescenti di 16-17 anni sono stati arrestati e forzati durante gli interrogatori a fare i nomi degli attivisti e informazioni sul comitato di Bil’in. L’intento non è solo quello di arrestare, sequestrare e neutralizzare fisicamente gli attivisti, ma anche quello di spargere il terrore tra gli abitanti del villaggio di Bil’in, 1800 residenti, al fine di bloccarne ogni attività di resistenza non violenta, ormai diventata anche da esempio anche per altre realtà della Cisgiordania occupata come Nil’in e Ma’asara, le cui terre continuano ad essere confiscate dal muro. Eppure né questo né i 1300 feriti e i 60 arresti subiti dagli attivisti sono bastati a fermare la loro determinazione. «Se vogliono, possono arrestarci tutti. Ma la lotta non-violenta contro muro e occupazione continuerà con le nostre mogli e i nostri figli» dichiara Abdullah Abu Rahmah, uno dei coordinatori del Comitato popolare di resistenza non violenta di Bil’in. Sua figlia Luna ha sette anni e soffre di insonnia, come gran parte dei bimbi di Bil’in, chiaro segno di disagio emotivo e psicologico: costantemente nel panico, Luna si sveglia nel cuore della notte urlando, piangendo e cercando il padre con la paura che sia stato sequestrato. Le ingiustizie subite dagli abitanti di Bil’in e testimoniate da organizzazioni per i diritti umani e attivisti israeliani e internazionali, non sono altro che la dimostrazione più evidente delle conseguenze dell’oppressione a cui sono soggetti i Palestinesi a causa dell’occupazione militare Israeliana. La loro risposta però è diventata un monito per tutti coloro hanno a cuore la giustizia e indica la via da seguire e da sostenere per la soluzione del conflitto. Sin dal 2005 i residenti di Bil’in hanno risposto infatti con una resistenza pacifica e non violenta al muro di separazione e il cui percorso, lontano dalla linea verde, si snoda ben all’interno del territorio della Cisgiordania, annettendo 1,968 dei 4040 dunum di terre di Bil’in (196,68 ettari su 403,88). Gli attivisti di Bil’in non fanno altro che esercitare un loro legittimo diritto di difesa della terra contro l’arbitrarietà di Israele che ha dimostrato disprezzo della Corte Internazionale di Giustizia che ben cinque anni fa condannava come illegale la costruzione del muro all’interno dei Territori Occupati Palestinesi (OPT), e anche dentro e attorno Gerusalemme Est, in violazione degli obblighi internazionali, e intimava Israele a cessare i lavori per la sua costruzione, distruggere le parti già costruite e porre fine al contempo all’intero sistema di rigide restrizioni alla libertà di movimento dei Palestinesi in Cisgiordania, un’ulteriore violazione dei diritti umani. E anche l’Alta Corte di Giustizia israeliana si è pronunciata più volte contro il tragitto del muro a Bil’in, invitando il Governo Israeliano ad attuare una via alternativa, invito ovviamente caduto nel vuoto, mentre colonie quali Mod’in Ilit e Mattityahu continuano a crescere.
Per questo le loro manifestazioni del venerdì hanno richiamato la solidarietà di attivisti israeliani e internazionali, uniti nel bisogno di giustizia e contro lo strangolamento, l’occupazione e l’apartheid. Insieme si oppongono allo sradicamento di alberi di ulivi soppiantati dalle fondamenta del muro, bloccando i bulldozer o impedendo l’installazione di outpost, avamposti per future colonie israeliane, tuttora in espansione.
La Comunità Internazionale deve dare valore a tutti quei Palestinesi, sostenuti da attivisti israeliani (che fanno l’onore di Israele) e internazionali nella difesa dei loro diritti, pretendendo da Israele la fine dei raid e il rilascio immediato di tutti gli attivisti arrestati -tra cui Abeed Abu Rahme- come richiesto dalla campagna avviata dal comitato popolare di Bil’in (sul sito http://www.bilin-village.org/english/activities-and-support/Campaign-to-release-Palestinian-activist-arrested-in-Bil-in il modello di lettere di protesta). E’ tempo inoltre che la Comunità Internazionale chieda con forza e urgenza alle Autorità Israeliane di rispettare la Corte di Giustizia e di smantellare il muro all’interno dei Territori Occupati Palestinesi, risarcendo ogni danno subito dalle persone a causa del muro, e ponendo fine all’occupazione militare nella Cisgiordania così come all’assedio che a Gaza punisce collettivamente un milione e mezzo di civili.
luisa.morgantini@europarl.europa.eu; www.luisamorgantini.net
Fonte: Liberazione 19 luglio 2009
Il fatto del giorno:
Decine di persone sono rimaste ferite la scorsa notte a Khan Yunes (a sud di Gaza) da una esplosione di natura ancora non accertata avvenuta nel corso di un ricevimento matrimoniale. Lo riferisce l’agenzia di stampa palestinese Maan secondo cui uno dei feriti, il padre dello sposo, versa in condizioni gravi.
Maan aggiunge che lo sposo è un nipote di Mohammed Dahlan, ex uomo forte di al-Fatah a Gaza. Dal colpo di mano armato di Hamas a Gaza, nel giugno 2007, Dahlan non è più potuto tornare a Gaza, per ragioni di sicurezza. Fonti locali hanno detto all’ANSA che la deflagrazione è avvenuta sotto a un palco dove si trovavano gli ospiti.
Circa cinquanta i feriti, il più grave dei quali è il padre dello sposo a cui è stata amputata una gamba. A Khan Yunes c’è ancora un clima di incertezza, e secondo voci ricorrenti potrebbe essersi trattato di un attentato. La polizia di Gaza, legata a Hamas, ha aperto da parte sua una inchiesta per fare luce sull’episodio.