Siria, infuria la guerra dell’informazione


Piergiorgio Cattani - unimondo.org


Sul terreno dominano la paura, il sangue e il caos. C’è però un’altra guerra che si combatte in Siria, incruenta ma non meno decisiva per il futuro del paese: è la infowar, la battaglia dell’informazione e della disinformazione.


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Siria, infuria la guerra dell’informazione

Gli attentati che hanno sconvolto Damasco il 10 maggio scorso gettano una sinistra luce su ciò che sta avvenendo in Siria in questi mesi e sulla natura sempre più ambigua dell’opposizione armata. Mentre non si sa ancora niente dell’esito delle recenti elezioni, boicottate comunque dai gruppi anti Assad, la popolazione vive nella paura e nell’incertezza.

Un reportage di Maurizio Musolino da Damasco per nenanews descrive una città in preda alla confusione e al timore di nuovi attentati e di violente ondate di repressione: “A fare paura è soprattutto la crescente presenza di cittadini stranieri arrivati in Siria per combattere per la “democrazia”. Sono il cuore dell’Esercito siriano di liberazione. Una sorta di milizia mercenaria internazionale, con una forte connotazione islamica, che da anni è al servizio di poteri forti e di interessi consolidati, purché disponibili a mettere sul tavolo cospicui bottini”.

Studenti e giovani non ne vogliono sapere di guerra civile o di rivoluzione violenta magari sponsorizzata dall’estero. Non stanno con Assad, sperano nelle riforme e criticano le varie posizioni in campo: “Sotto attacco sono anche i mezzi di informazione arabi, fra tutti Al Arabya e Al Jazeera, ieri campioni di libertà oggi strumento di manipolazioni e di un uso bellico dell’informazione. La prima fa riferimento all’Arabia Saudita, la seconda al Qatar. E su di un muro di Damasco si legge una scritta fatta da poco dove si da “della prostituta” all’emittente qatariota. Anche questo è un pezzo del conflitto che avvolge la Siria”.

Molto difficile comprendere in pieno il ruolo dei canali satellitari panarabi: benché Al Jazeera, che ha superato i 15 anni di attività, sia stata “sdoganata” persino da Hillary Clinton nel marzo scorso (ricordiamo nel 2002 quando Bush voleva bombardare i ripetitori perché la tv mandava in onda i video di Bin Laden), sempre di più si ha la diffusa sensazione che i giovani di Damasco vedano giusto. Scrive lo studioso di media Philip Seib: “Per via della sua influenza nell’agenda mediatica internazionale, Al Jazeera – e in particolare il suo canale in lingua inglese – aumenta la visibilità e l’influenza del Qatar. Più o meno correttamente, molti spettatori nel mondo considerano Al Jazeera un rappresentante degli interessi del Qatar in politica estera e perciò all’espansione dell'emittente corrisponde un aumento della possibilità del paese di raggiungere un pubblico più vasto”.

Ritornando sulle strade concrete della Siria, tra la gente, così descrive la situazione Margherita Paolini per Limes: “La loro vita quotidiana si svolge nelle case, dove vivono barricati per timore di rappresaglie e abusi da parte delle milizie del regime o di gruppi armati senza controllo che si richiamano genericamente all’opposizione. In maggioranza aspirano a un cambiamento non violento, che porti maggiore equilibrio sociale e libertà di espressione, mentre temono un intervento esterno mirato a provocare la caduta del regime, senza che esista un vero piano per il day after”. Stretti tra l’incudine di un potere che non sembra voler cedere nulla e il martello di una rivolta sempre più indecifrabile negli attori e nell’agenda, i cittadini siriani sono allo stremo, vittime di una guerra che non volevano.

Fin dall’inizio la “rivoluzione” siriana è stata sostanzialmente diverse da quelle avvenute nel Maghreb. Ciò che in Tunisia e Egitto era nato spontaneamente da una rabbia repressa nel popolo, in Siria sembra aver avuto una pianificazione mediatica di registi con base all’estero. Scrive ancora Paolini: “Le notizie arrivano in diretta dal terreno grazie a un coordinamento straordinario, messo in atto da una rete che sembra nascere spontaneamente: quella dei cosiddetti cittadini giornalisti che riprendono con i telefonini tutto ciò che accade intorno a loro, in sincronia network, da un capo all’altro della Siria”.

Le immagini delle repressioni finiscono immediatamente sui blog o su Youtube, sono rilanciate da “comitati per i diritti umani” per poi essere riprese dalle agenzie di stampa internazionali e dalle grandi emittenti, e finire ripetute decine di volte dai notiziari d tutto il mondo. Ci sono però anche le bufale, non si sa se spontanee o costruite ad arte. Ricordiamo il caso della “gay girl in Damascus”, una ragazza data per arrestata dal regime e oggetto di migliaia di appelli internazionali per la sua liberazione: la storia era invece stata inventata da un americano di 48 anni residente in Inghilterra. “Poteva essere verosimile”, si è difeso lui, e intanto la vicenda ha fatto il giro del mondo.

Ancora più eclatante l’imbroglio Danny Syria/CNN. Danny Dayem è un giovane siriano cresciuto in occidente che gira per le strade del suo paese sfidando milizie, agguati e violenze armato soltanto di un telefonino. Esempio di cittadino giornalista Danny racconta con emozione storie di bombardamenti e di massacri indiscriminati: le immagini sono un corredo impressionante. Soltanto dopo mesi si scoprirà che Danny monta lo “sceneggiato” in un luogo sicuro con effetti sonori artificiali e filmati manipolati. La CNN si scusa in diretta, ma anche in questo caso l’opinione pubblica è stata indottrinata.

Per molti mesi sembra che sia soltanto il regime a commettere violazioni di diritti umani. Il 20 marzo però Human Right Watch, che pure è in prima linea per denunciare i crimini di Assad, manda una lettera al Concilio nazionale siriano (SNC) evidenziando abusi come “sequestri, detenzioni e torture” delle forze di sicurezza governative, “esecuzioni sommarie” di soldati ma anche di civili, nella consapevolezza che “la brutale tattica del governo siriano non può giustificare gli abusi dei gruppi armati dell’opposizione”. Questa denuncia era stata anticipata nel documento finale del vertice della Lega araba nel gennaio 2012 (quello che aveva dato il via alla fallimentare missione di 160 osservatori) che pur con molta prudenza affermava di violenze e crimini della opposizione: il documento, votato da tutti tranne che dal Qatar, stranamente non è stato tradotto in inglese ma è rimasto nell’originale arabo. Un evidente tentativo di impedirne una larga diffusione. Che dietro ci sia una strategia delle petromonarchie è confermato dalle dimissioni in blocco della redazione di Al Jazeera di Beirut proprio perché impedita di narrare tutto quello che accadeva sul terreno.

Ritorniamo così al punto di partenza: in Siria si sta combattendo una infowar senza precedenti che ha un ruolo non secondario nella creazione del caos odierno. Il paese assomiglia sempre di più all’Iraq del dopo Saddam (di cui però avevamo molte notizie) o alla Libia del dopo Gheddafi, sulla quale è stato posto un velo informativo anch’esso costruito ad arte. Insomma mai come oggi la guerra e la pace passano attraverso la qualità delle fonti e dei canali delle notizie che ci giungono.

Fonte: www.unimondo.org
16 Maggio 2012

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