Si agita il Nemico sionista per affossare la «Primavera araba»


Umberto De Giovannangeli - L'Unità


Per gli ispiratori dell’assalto alla sede diplomatica israeliana la vera minaccia è lo sviluppo del processo democratico. Per contrastarlo puntano a innescare lo scontro con Tel Aviv.


CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+
Si agita il Nemico sionista per affossare la «Primavera araba»

Vogliono trasformare Piazza Tahrir, la piazza delle libertà, nella piazza dell'odio. Non più dando in pasto alla folla un «faraone» morente ma ora resuscitando «il Nemico» esterno, quello che nei momenti di crisi è servito come collante interno: lo Stato ebraico. L'assalto all'ambasciata israeliana al Cairo è anche l'assalto contro la «Primavera araba», contro la sua agenda politica che mai, nei 18 giorni che hanno cambiato il corso della storia nel Paese chiave del Medio Oriente, ha avuto al suo centro il vecchio armamentario anti sionista o anti americano. A bruciare non sono solo le bandiere con la Stella di Davide; a bruciare rischia di essere quella speranza di cambiamento che è stata alla base della rivoluzione «jasmine» in Tunisia come della rivolta popolare che ha determinato il crollo del trentennale regime di Hosni Mubarak. La leadership israeliana non ha fatto nulla per interagire positivamente con la «Primavera araba», percependola come un problema e non come una risorsa con cui interagire. Ma questa miopia politica è stata sfruttata cinicamente da quanti, nel mondo arabo, puntano sulla destabilizzazione del Medio Oriente: la guerra, in questa logica devastante, è sempre meglio di dover pagare il prezzo della democrazia. L'assalto alla sede diplomatica israeliana ha molto a che fare con le vicende interne, e segna pesantemente il clima di attesa e di tensione col quale l'Egitto guarda a due avvenimenti imminenti: la deposizione oggi i al processo Mubarak di Hussein Tantawi, capo del consiglio supremo delle forze armate – la giunta militare che regge il Paese dalla deposizione dell'ex raìs l'11 febbraio scorso – e l'arrivo domani del premier turco Recep Tayyip Erdogan, considerato da molti come un esempio da seguire per la linea dura che ha adottato nei confronti di Israele. Già da giorni si temeva che la manifestazione in piazza Tahrir indetta, come di consueto, nel giorno della preghiera del venerdì, avrebbe costituito l'occasione per nuove proteste davanti all'ambasciata israeliana, dove si erano già tenute manifestazioni contro l'uccisione di cinque guardie di frontiera egiziane, dopo l'attentato a Eilat, oltre confine, a fine agosto. A rendere ancora più tesa la situazione era venuta la decisione delle autorità egiziane di costruire un muro di protezione davanti alla sede diplomatica, solo qualche giorno dopo la decisione della Turchia di allontanare l'ambasciatore israeliano per il rifiuto di scusarsi per l'assalto alla Mavi Marmara, la nave turca della Freedom Flottilla per Gaza, nel maggio del 2010. Una mossa, quella del muro, bollata come inopportuna da molti egiziani, che l'hanno vista come il segno tangibile di un approccio troppo morbido nei confronti di Israele. In questo quadro si è inserita, a sorpresa, la decisione della Corte che processa Hosni Mubarak per le violenze contro i manifestanti, di ascoltare i vertici militari e politici attuali e precedenti, a partire dal capo della consiglio militare, per venti anni ministro della Difesa di Mubarak. Tantawi è già da tempo nel mirino dei manifestanti, che anche venerdì hanno chiesto di accelerare la transizione ad un regime democratico retto da civili. La sua testimonianza, anche se il presidente della Corte Ahmed Rifaat ha detto che dovrà rimanere assolutamente top secret, è attesa per sapere quale sarà la sua versione dei fatti e se contribuirà o meno a scagionare l'ex presidente egiziano dall'accusa di essere coinvolto nella repressione che ha provocato la morte di oltre ottocento manifestanti. In questo clima di incertezza, agitare il Nemico esterno può servire a stornare l'attenzione dalla vera posta in gioco: realizzare in Egitto un sistema realmente democratico, effettivamente pluralista, qualcosa di altro e di più di una sorta di «mubarakismo senza Mubarak», fondato su un patto di potere tra il vecchio establishment economico-militare e i Fratelli musulmani. In questa chiave, l'irrisolta «questione palestinese» viene piegata, come spesso è accaduto nei corso degli anni, a fini di potere interno e regionale a cui sacrificare il diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente. I «piromani» mediorientali vogliono mettere il loro marchio sul dibattito che si aprirà all'Onu, tra dieci giorni, sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Far deragliare quel dibattito, insanguinarlo, è uno dei loro obiettivi. L'altro obiettivo non è meno significativo: è la «Primavera araba», entrata nella sua fase più delicata, quella della costruzione della democrazia. Per un potere che vuole perpetuarsi, è questa la minaccia mortale.

Fonte: l'Unità

11 settembre 2011

CondividiShare on FacebookTweet about this on TwitterEmail to someoneGoogle+

Lascia un commento