Scacco al Re all’Intercontinental
Emanuele Giordana - Lettera22
Intorno all’attacco di martedi notte a uno dei simboli della sicurezza a Kabul costruito negli anni Sessanta all’epoca dell’ultima monarchia.
La violazione plateale di un emblema della sicurezza della capitale avviene martedi sera al calar delle tenebre, quando ormai la città pensa di aver appena oltrepassato un altro giorno senza sangue. E' all'Intercontinental, l'albergo che con il “Serena Hotel” rappresenta per antonomasia uno dei luoghi “sicuri” scelti dal governo o dagli internazionali per i loro summit, che i talebani mettono a segno un colpo che ha un solo eclatante precedente: la strage al Serena, appunto, del gennaio 2008.
La tecnica è simile e forse anche i mandanti (Haqqani, i più qaedisti della variegata galassia guerrigliera); l'obiettivo politico è più vago. A Kabul sono in programma due eventi: uno vedeva tra i clienti dell'Intercontinental diversi governatori delle province convenuti a Kabul per parlare della “transizione”. L'altro era il summit appena concluso del “Gruppo di contatto”, riunione degli “inviati speciali” (tra cui l'italiano Francesco Talò appena nominato) che hanno appena terminato un incontro sullo stesso tema: la transizione in mano afgana del quadro politico militare. Ma nella capitale, da oltre un anno a questa parte, azioni così eclatanti sono rare. La città sembrava godere di uno status speciale che, per via delle trattative sotto traccia, sembrava una sorta di salvacondotto. Non che le azioni kamikaze o gli assalti siano mancati. Ma erano effetti speciali. Dovuti, come in questo caso, a mosse tattiche che rispondono all'agenda del tutto personale di qualche gruppo.
Nel pantano afgano, cornice e quadro restano confusi. La galassia talebana è divisa e sparpagliata e non sembra avere una linea comune. La comunità internazionale, o meglio gli americani spalleggiati ora da questo ora da quel Paese, trattano con un gruppo o l'altro. Il governo fa lo stesso. Lo stesso fanno altri attori. Manca un piano di pace condiviso e gestito da una figura super partes (il vero dramma di questo infelice processo) e tutto si muove su iniziative singole, poco coordinate, dove ognuno cerca di portar acqua al suo mulino: Washington, per dare un senso al ritiro annunciato; Islamabad, per pilotare negoziato e risultati; gli europei, in cerca di una parte in commedia; Ankara che vorrebbe il ruolo di primadonna; i talebani, ognuno, per quel che gli compete.
Se il negoziato ha preso un avvio (come dicono le cronache, i boatos e, ormai, le fonti ufficiali), si deve mettere sul piatto quel che si ha, foss'anche un bluff, per alzare il prezzo. E' forse in quest'ottica che va letta l'azione di ieri. Che contiene comunque un messaggio chiaro: nulla è inviolabile, cosa persin troppo ovvia quando si usa il terrore.
Il problema vero è che la linea di condotta resta vaga e fumosa. Al ritiro delle truppe non corrisponde una forza di interposizione che magari coinvolga i paesi musulmani. Al piano di pace possibile non viene suggerita una mediazione che dia a tutti garanzie. Agli afgani stessi vengono solo offerte (da noi come dai talebani) solo una messe di parole (“Non vi abbandoneremo”, diciamo noi. “Andatevene”, dicono loro). In mezzo a questo guado il colpo all'Intercontinental è solo il rilancio su un piatto al buio.
Fonte: Lettera22, Terra
30 giugno 2011