Ripercorrendo due anni di crisi siriana
Maurizio Musolino - Nena News
Due anni fa le prime proteste di piazza, in breve trasformate in guerriglia poco popolare da poteri esterni. La soluzione? Le chiavi della pace in mano al mondo.
Sono passati oltre due anni da quando nella primavera del 2011 le prime proteste infiammavano le strade di alcune città siriane. In molti allora videro in questi moti, solo apparentemente spontanei, un effetto domino innescato da quanto era accaduto pochi mesi prima in Tunisia e in Egitto e stava accadendo in Libia. Proprio il caso libico avrebbe dovuto invece indurre ad una prudenza verso le cosiddette “primavere arabe” visto che lì il vento della democrazia soffiava attraverso i bombardamenti Nato che distruggevano il Paese condannando alla sconfitta l’esercito di Gheddafi e all’insicurezza e alla barbarie la Libia. Ma così non fu.
Infatti, anche grazie ad una martellante campagna di disinformazione da parte della quasi totalità dei media, avviene una sorta di cieca equazione, da una parte il governo siriano di colpo diventato “dittatoriale e criminale”, dall’altra i manifestanti paladini di “democrazia e libertà”. Facile il verdetto: chi ama la democrazia non può che augurarsi una veloce caduta del rais di Damasco. Il presidente siriano, al quale fino a poche settimane prima molti manager occidentali (compresi quelli del nostro Paese) bussavano alla porta per stringere affari e accordi, diventa il demonio, un “insopportabile” da rimuovere, meglio se sopprimendolo. Un copione non nuovo visto che precedentemente era stato usato con Milosevic, Saddam e in ultimo Gheddafi. Certamente leader lontani dal poter essere presi come campioni di democrazia, ma la cui vera colpa era stata quella di rifiutare di collocarsi sotto l’ombrello degli Usa.
Nella primavera del 2011 assistiamo anche ad un attacco durissimo contro ogni voce che si pone fuori dal coro, e proprio i Comunisti italiani sperimentano sulla loro pelle la loro coerenza internazionalista e anti-imperialista che da tempo li aveva portati ad avere dei rapporti di stima e amicizia con il Partito comunista siriano.
Sia ben chiaro un partito come il Baa’th che detiene il governo di una nazione da oltre quaranta anni è normale che venga percepito da parte della popolazione come elemento di chiusura, anzi sarebbe da sorprendersi se fra i giovani non ci fossero quanti auspichino un cambio anche radicale del quadro politico. Emotivamente è comprensibile. E’ questo è ancora più normale se questo partito vede alla sua guida una famiglia, gli Assad appunto, e se questa famiglia proviene da una confessione storicamente minoritaria nel paese, gli Alawiti. A ciò si deve aggiungere che alcuni settori del potere siriano (anche all’interno della famiglia degli Assad), da tempo critici su alcune aperture di Bashar Assad, forse colti di sorpresa dalle prime manifestazioni, oppongono a queste proteste una reazione spropositata quanto insensata. Ricordiamo quanto successo a Daraa, quando una manifestazione del tutto pacifica viene repressa nel sangue dalle forze di polizia. Le prime proteste quindi rappresentano un sentire diffuso, anche se forse non maggioritario, e sicuramente risentono dell’effetto delle notizie che arrivavano da Tunisi e dal Cairo. Il re era nudo, si poteva abbattere, deporre, quindi perché non provarci anche a Damasco?
Va però ricordato che Bashar Assad cerca immediatamente un dialogo con i manifestanti: verrà destituito il responsabile della polizia della regione di Daraa e alla fine di aprile annuncia la fine dello “stato di emergenza” in vigore dal 1963. Bashar annuncia anche una stagione di riforme di più vasta portata e chiede alle masse critiche verso il governo di concedergli tempo.
Il dibattito interno alla politica siriana
L’origine delle proteste va ricercato quindi in motivi tutti interni alla Siria, con questo senza sottovalutare i tentativi di destabilizzazione messi in atto dagli Usa e dalle potenze occidentali da oltre un decennio. Da mesi il governo di Damasco era impegnato in un durissimo dibattito, che coinvolgeva anche il Parlamento, sulla dismissione di asset centrali per l’economia del Paese a partire da quelli energetici e idrici. La privatizzazione delle centrali elettriche, ad esempio, aveva registrato un forte interesse dell’Edf, la multinazionale francese con le mani in pasta in molte situazioni di crisi internazionale. Su questo tema la discussione era stata durissima e aveva visto proprio i comunisti siriani in prima fila nella lotta contro la svendita di settori che a loro dire avrebbe indebolito la sovranità nazionale della Siria. Lo stesso vale per la privatizzazione di altri settori e per la liberalizzazione di alcune tariffe che aveva portato ad un indebolimento del potere d’acquisto dei salari e quindi ad un impoverimento diffuso di ampi settori della popolazione.
La siccità e la crisi economica
A questo si deve sommare che la Siria usciva da tre anni di durissima siccità che aveva reso praticamente desertiche le vaste terre della regione interna fra Latakia e Homs, notoriamente possedute da famiglie della borghesia sunnita, causando crisi e malcontento fra questa gente. Ad aggravare questa situazione secondo alcuni studiosi si sommavano alcuni accordi con la vicina Turchia sullo sfruttamento di alcune sorgenti idriche lungo il corso dell’Eufrate, nel Nord del Paese. In ultimo, ma non per questo con un minore effetto, la crisi economica mondiale che seppur in ritardo iniziava a far sentire i suoi effetti anche nella regione mediorientale.
Elementi centrali, questi, fra le parole d’ordine delle prime proteste e più che sufficienti per far accendere il fuoco delle rivolte, che in un primo momento non mettono però in discussione il governo e che non di rado sono guidate dalle forze progressiste presenti all’interno del Fronte patriottico nazionale che da decenni guida la Siria. Ma parallelamente allo scoppio di queste legittime manifestazioni parte il piano S, ovvero quello che i servizi segreti Usa da anni avevano nel cassetto per mettere fine a quello che era l’unico governo dell’area che non accettava l’idea di quel “grande Medio Oriente” tanto cara alla famiglia Bush e mai rinnegata da Obama. Le manifestazioni sono in breve infiltrate, spesso avvengono delle vere e proprie provocazioni, anche armate, con l’obiettivo di innescare una reazione della polizia. Reazione che non si fa attendere e che come ricordavamo prima a volte sconfina in violenze certamente evitabili.
Dalla piazza alla guerriglia finanziata dall’estero
Da questo momento, più o meno databile intorno alla fine dell’estate, si modifica lo scenario. La piazza non esiste più e al suo posto appare una vera e propria guerriglia armata sempre più monopolizzata da elementi esterni alla Siria. Significativo è il discorso di Barak Obama, tenuto il 21 agosto presso l’organizzazione filo israeliana Aipac, dove si ammette la possibilità per il Pentagono di prendere in considerazione un intervento armato da parte degli Stati Uniti. In prima fila nella linea interventista è però la Francia, che dopo le azioni militari in Libia sembra pervasa da uno spirito neocoloniale che la porta ad un attivismo smodato sullo scenario africano e mediorientale.
In Siria parallelamente alla questione interna e ad una logica di ingerenza geopolitica da parte di Usa e Europa, si gioca un’altra partita: è quella che vede opposti il mondo sunnita delle petrolmonarchie oscurantiste a quello sciita guidato dall’Iran. Cavallo di Troia dei primi è il movimento dei Fratelli mussulmani, da sempre del tutto compatibile con la grande finanza internazionale e con il liberismo e trade union fra i regimi dell’Arabia Saudita, Qatar, Giordania e la Casa Bianca, in virtù di un tacito accordo siglato con l’allora responsabile della politica Estera Usa Hillary Clinton durante la visita di Obama al Cairo del giugno 2009. Più o meno negli stessi mesi dello scoppio delle rivolte in Siria c’era stato nel vicino Libano un rovesciamento delle alleanze, che aveva visto Hezbollah, legati allo sciismo iraniano, estromettere democraticamente dal governo il partito Mustaqbal di Hariri, sunniti filo saudita. Uno smacco indigeribile per il regime di Riad.
Più o meno in questi mesi entra in scena un protagonista che da anni aspira ad un ruolo egemone nella regione: la Turchia di Erdogan e del neo-ottomanismo propugnato dal suo ministro degli Esteri. Lo schierarsi a fianco delle petrolmonarchie da parte del governo di Ankara è vissuto da Bashar Assad come una pugnalata alle spalle, perché proprio con il leader turco negli ultimi anni si era sviluppata una intensa collaborazione sia politica che economica. Come si arriva a questa rottura? Erdogan è convinto che i rapporti di buon vicinato inaugurati da diversi anni con la Siria siano il preludio di una sorta di ottomanizzazione del Paese arabo. Ritiene che Damasco debba accettare il suo protettorato senza reclamare spazi di autonomia, condizione preliminare per non fare cadere l’appoggio della Turchia in un momento difficile quale è l’inizio della crisi siriana. Queste richieste sono però considerate inaccettabili da Damasco. Da qui l’inizio dei dissidi, un fossato che si amplia grazie alle pressioni della Casa Bianca e della Nato che vedono per la prima volta la possibilità di togliersi di torno gli Assad.
In molti in effetti scommettono in una rapida caduta del presidente siriano, sulle orme di quanto successo a Ben Alì, Mubaraq e Gheddafi. Ma resteranno ad oggi tutti delusi.
La Siria fatta a pezzi e lo stallo internazionale
Il 2012 sarà per la Siria un anno durissimo. Oramai pressoché isolata dal mondo e sotto il continuo attacco delle bande armate che si oppongono al governo di Damasco. Sono migliaia i combattenti – ma forse è meglio chiamarli con il nome più appropriato: i mercenari – arrivati dai quattro angoli del mondo arabo per esportare anche in Siria, in nome dell’Islam sunnita, il cappello di Washington. Bande che si riconoscono sotto l’effige della vecchia bandiera della Siria colonizzata, fatta propria dall’Esercito libero siriano e dalla Coalizione nazionale siriana. Nonostante gli ingenti aiuti in denaro, uomini e armi, i successi sono modesti, ma soprattutto gli insorti non riesco nell’operazione di controllo di una fetta omogenea di territorio, possibile escamotage per imporre alla Siria da parte della Nato una nefasta riedizione della no-fly zone, preludio alla guerra in Iraq e in Libia. Nello stesso tempo la strada di un coinvolgimento dell’Onu in chiave anti-Assad è questa volta scongiurato grazie alle decise prese di posizione di Russia e Cina, ma più in generale dei paesi del Brics, che probabilmente hanno fatto tesoro di quanto successo in Libia, dove i loro tentennamenti hanno aperto le porte al protagonismo unilaterale della Nato. E se Pechino vede in quanto accade in Medio Oriente i primi sintomi di un conflitto lunghissimo che nel futuro li opporrà agli Stati Uniti e all’Occidente loro alleato, la Russia ha in Siria interessi molto più concreti e attuali: primo fra tutti il mantenimento di quella che è l’unica base militare navale della Russia nel Mediterraneo di stanza nel porto di Tartus. La presenza militare russa in questi mesi ha rappresentato un elemento formidabile di dissuasione per chiunque fosse tentato da prove di forza sul modello dei primi bombardamenti francesi su Tripoli. Infatti un intervento armato in Siria rappresenterebbe una esplicita dichiarazione di guerra anche verso la Russia, con conseguenze inimmaginabili.
Ma se è vero che l’opposizione non è riuscita nell’intento di togliere stabilmente del territorio dal controllo del governo centrale è altrettanto indiscutibile che nonostante gli ingenti sforzi il governo di Damasco non è riuscito ad imporre sicurezza e stabilità in Siria. Sempre di più la disperazione degli oppositori si sfoga in attentati suicidi che portano morte e distruzione all’interno delle città siriane. Uno stillicidio che mesi dopo mesi sta cambiando le consuetudini della popolazione. Dove invece sembra non essere riuscita a fare breccia l’opera de stabilizzatrice di Washington è sul piano confessionale. La Siria nel suo insieme resta un Paese interconfessionale e la temuta “libanesizzazione” ad oggi non è realtà. Sicuramente i rapporti fra sunniti e sciiti, e soprattutto fra alawiti e sunniti, e ancora fra quest’ultimi e l’infinito arcipelago del cristianesimo, si sono deteriorati, ma gli esempi di dialogo e di collaborazione sono tantissimi. Uno fra tutto la mussalaha, riconciliazione: un percorso di pace che vede lavorare insieme cristiani e musulmani. Ma attenzione a sottovalutare questo rischio, proprio la frantumazione, e il confessionalismo rappresenta uno strumento straordinario per arrivare a ciò, resta il principale obiettivo sia degli Stati Uniti che delle potenze regionali, leggi Arabia saudita, Turchia e Israele.
Tutto questo ha però portato ad una situazione di stallo. Uno stallo drammatico, fatto di fame e morti quotidiane, ma non del tutto avverso ai protagonisti anti Assad. Gli Stati Uniti e lo stesso Israele, infatti, non disdegnano affatto una situazione che rende impotente il governo di Assad, e nello stesso tempo ricattabili i ribelli islamici, alleati oggi ma possibili nemici domani. Anche perché all’iniziale monopolio dei Fratelli Musulmani sull’opposizione, si sta passando settimana dopo settimana ad un affermarsi delle milizie salafite vicine alla galassia denominata Al Qaeda. Forse anche per queste ragioni sembrerebbe cambiato l’approccio di alcuni Paesi occidentali che iniziano a pensare ad una soluzione che non elimini dalla scena il blocco di potere vicino al presidente Assad: la conferenza di Ginevra ha questo obiettivo, ma i lavori sono in alto mare ed è difficile prevedere quale sarà – ammesso che si riesca a tenere – lo sbocco.
Una sensazione analoga si prova all’interno del cosiddetto pacifismo italiano, in un primo momento miopemente schierato con gli oppositori. Di giorno in giorno aumentano di distinguo e le prese di distanza da uno schieramento che mostra di essere assolutamente succube ai voleri degli Usa.
Come uscire dalla crisi?
Proviamo ad azzardare in conclusione quale potrebbe essere una porta di uscita da questa crisi. A mio modesto avviso questi due anni hanno mostrato che Assad gode dell’appoggio e del sostegno di una parte importante del suo popolo e nello stesso tempo che l’esercito rappresenta una colonna non eludibile dell’unità nazionale. Dall’altra parte seppur divisa e distante spesso dalla popolazione – che la sente estranea – l’opposizione grazie alle risorse che gli arrivano dai Paesi amici conserva vigore e forza. Con questi due elementi tutti devono fare i conti a partire dall’opposizione, quella innanzitutto siriana e poi volenterosa di dare pace al Paese. Il prossimo anno scadrà il mandato presidenziale di Assad e intorno a questo potrebbe giocarsi una partita che veda garante la Russia e che cerchi di limitare i vincitori e gli sconfitti. Il rischio contrario è invece un accendersi di altri fuochi ad iniziare dal vicino Libano, dove intorno a Tripoli e a Sidone si combatte come se si stesse in un pezzo di Siria. Il coinvolgimento fraterno del partito Hezbollah, che ha avuto un ruolo chiave nella liberazione della città di Qusayr, e la presenza dei mercenari sunniti rischia di far sprofondare in un nuovo conflitto il piccolo paese dei cedri.
Come mi ha spesso detto un grande intellettuale arabo, Talal Salman, direttore del quotidiano libanese Assafir, quando gli chiedevo numi sulle crisi in Siria e in Libano, “le chiavi della pace in questa regione sono nelle capitali di altri Paesi. Parigi, Washington, Londra, Riad, Ankara, Teheran.”. Una verità sempre molto attuale.
Fonte: Nena News
28 giugno 2013