Ricchezza: ecco perché in Italia si è rotto l’ascensore sociale
Da Rold Cristiana
Eurostat ha reso noti i dati su quanto reddito è in mano al quinto della popolazione più ricca rispetto al quinto di quella più povera, in ogni paese europeo negli ultimi 10 anni, che ci mostra che in Italia il reddito del quinto dei cittadini più ricchi è 6,3 volte quello del quinto dei più […]
Eurostat ha reso noti i dati su quanto reddito è in mano al quinto della popolazione più ricca rispetto al quinto di quella più povera, in ogni paese europeo negli ultimi 10 anni, che ci mostra che in Italia il reddito del quinto dei cittadini più ricchi è 6,3 volte quello del quinto dei più poveri. Siamo in questo senso nei primi posti della classifica per ampiezza della disparità: in Europa in media i più ricchi guadagnano 5 volte più dei più poveri. In Germania 4,3 volte, in Francia il 4,6, in Gran Bretagna 5,1 e nei paesi del nord Europa meno di 4 volte tanto.
E c’è di più: in Italia il gap è andato aumentando costantemente dal 2006 a oggi (nel 2006 i più ricchi guadagnavano 5,2 volte in più dei più poveri) mentre nella maggior parte degli altri paesi questo divario è rimasto stabile, come in Francia e Germania, se non addirittura diminuito, come è accaduto in Gran Bretagna.
Interessante osservare che anche fra le donne, il quinto di quelle più benestanti ha un reddito di 6,2 volte superiore rispetto alle donne meno abbienti.
Per inquadrare meglio la questione ci viene in aiuto un rapporto di Istat pubblicato nel dicembre scorso, che conferma i dati di Eurostat: nel 2015 il quinto dei più benestanti deteneva il 37,8% del reddito, mentre il quinto dei più poveri solo il 7,2% del reddito. Anche mettendo insieme il primo e il secondo quinto dei meno abbienti non si supera il 19% del totale del reddito nel 2016 (dato Eurostat), in diminuzione di un punto percentuale rispetto al 2010. In una situazione ipotetica di perfetta eguaglianza, ogni quinto avrebbe una quota di reddito pari al 20% del totale.
C’è inoltre il fattore geografico: sempre i dati Istat citati mostrano che al centro nord una famiglia su quattro appartiene al quinto più ricco della distribuzione rispetto a una su 12 di quelle che vivono nel Sud e nelle Isole.
Non si tratta di osservazioni fine a se stesse, ma riflettono la difficoltà di confrontarsi su temi comuni come i salari, individuando parametri condivisi per misurare povertà e sfruttamento sul lavoro.
Il dato complessivo è che nel 2015 si stima che le famiglie italiane abbiano percepito un reddito netto pari in media a 29.988 euro, cioè circa 2.500 euro al mese. Tuttavia, se più realisticamente si calcola il valore mediano, ovvero il livello di reddito che separa il numero di famiglie in due metà uguali, si osserva che il 50% delle famiglie ha percepito un reddito non superiore a 24.522 euro (2.044 euro al mese).
Interessante è anche provare a ragionare in termini di gruppi sociali, come propone l’ultimo rapporto annuale di Istat per il 2017 , che cerca di tracciare i contorni di quella che definisce “classe dirigente”. Si tratta delle famiglie a maggiore reddito equivalente, con un vantaggio di quasi il 70 per cento rispetto alla media, ed e composto per il 40,9% dei casi dirigenti o quadri (quasi dieci volte più rappresentati rispetto alla media nazionale), per il 29,1% da imprenditori (sette volte più della media) e per il 30%per cento da persone ritirate dal lavoro. Stiamo parlando di 1,8 milioni di famiglie (il 7,2 per cento del totale) e di 4,6 milioni di persone, cioè solo il 7,5 per cento degli italiani.
Bene, secondo le stime di Istat, la classe dirigente detiene il 12,2 % del reddito totale, ed è il gruppo in cui si osserva la differenza più ampia fra la quota di reddito e il numero di famiglie che se lo spartiscono. Oltre a essere il gruppo per il quale si riscontra la differenza più accentuata tra reddito medio e reddito mediano. Che cosa significa questo? Significa che siamo di fronte a un’asimmetria marcata all’interno della distribuzione del reddito, data proprio dai redditi molto alti.
Inoltre la “classe dirigente” è il gruppo con il più basso rischio di povertà o esclusione sociale, che riguarda solo il 7,6 per cento di loro, mentre la media nazionale è del 30%.
Ancora una volta si ritorna alla classe sociale di appartenenza. La rilevazione Istat – che, va detto, è stata oggetto di forti dibattiti – mostra chiaramente il legame novecentesco ancora estremamente saldo fra questo piccolo sottogruppo all’interno del quinto dei più ricchi che è la “classe dirigente” (che rappresenta il 7% della popolazione ma che detiene il 12% del reddito nazionale) e la loro estrazione sociale. Al netto dei pensionati questo gruppo è costituito esclusivamente dalla “borghesia”, che secondo la definizione di Istat comprende imprenditori con almeno sette dipendenti, liberi professionisti, dirigenti e quadri. Specularmente si osserva che questa borghesia è rappresentata per il 57,8 per cento dal gruppo della classe dirigente e per il 31,7 per cento dalle pensioni d’argento.
Ritornando al dato iniziale di Eurostat, e cioè che il reddito del quinto dei cittadini italiani più ricchi è 6,3 volte quello del quinto dei più poveri, e che il gap è andato aumentando negli ultimi 10 anni, determinante è anche il ruolo dell’istruzione. La classe sociale dei genitori è cruciale infatti nel definire i percorsi educativi dei ragazzi e delle ragazze, sia nella scelta della scuola superiore, che in quella universitaria. Solo qualche mese fa Almadiploma (https://www.almadiploma.it/indagini/profilo/profilo.aspx) pubblicava i dati relativi ai diplomati del 2016, secondo cui meno di un diplomato di liceo classico su 10 sarebbe figlio di operai e impiegati. E in generale, un terzo di chi ottiene un diploma liceale proviene da famiglie di classe sociale elevata, mentre solo il 17% di essi proviene da famiglie di classe operaia.
Lo stesso meccanismo avviene per la scelta universitaria. Sempre dati Almalaurea
(https://www.almalaurea.it/sites/almalaurea.it/files/docs/universita/profilo/Profilo2016/xviii_rapporto_almalaurea_sul_profilo_dei_laureati.pdf ) mostrano che nel 2015 i figli di operai erano il 24% dei laureati dei corsi di primo livello, il 21% dei laureati magistrali biennali e solo il 15% dei laureati magistrali a ciclo unico, cioè dei medici e degli avvocati.
Niente di diverso, in fondo, da ciò che mostra Thomas Piketty, noto autore de “Il Capitale del XXI secolo” quando afferma che la (lenta) democratizzazione degli accessi all’istruzione non ha (ancora) ridotto la disuguaglianza sociale.