Resistenza, tra Hamas e Obama
Paola Caridi - invisiblearabs.com
Una parola controversa, significati diversi, ma sia il movimento islamista sia il nuovo presidente americano l’hanno usata. E la sua comparsa è uno degli elementi importanti in questa singolare fase del Medio Oriente.
Pubblichiamo l'intervento di Paola Caridi al convegno organizzato il 16 giugno scorso a Roma dal Centro Studi Americani sui due quadranti più importanti della situazione politica in Medio Oriente: Israele/Palestina e Iran. Paola Caridi è stata uno dei relatori del primo panel, assieme a Efraim Inbar, Yossi Alpher, Nathan Brown, Ugo Tramballi.
Poco meno di due settimane prima del discorso del presidente Barack Obama al Cairo – quello che anche per gli arabi è considerato Il Discorso – è uscito a sorpresa un lungo articolo di Ghazi Hamad, uno degli esponenti più in vista della cosiddetta ala pragmatica di Hamas a Gaza. Ghazi Hamad era stato il portavoce del governo di Ismail Haniyeh sino al colpo di mano di Hamas del giugno 2007 che aveva spaccato Cisgiordania e la Striscia. Hamad si era dimesso poco dopo, in disaccordo con quello che era successo. E la sua influenza si era di molto ridotta. Da qualche mese, Ghazi Hamad è tornato a mostrarsi più di prima, e a scrivere più di prima.
Due settimane prima del discorso di Obama al Cairo, Ghazi Hamad fa un lungo ragionamento sulla mancanza di strategia politica delle fazioni palestinesi. Non solo su Hamas, dunque. Il ragionamento è complessivo, ma è evidente che i primi destinatari sono i dirigenti del movimento islamista palestinese. Hamad dice “la resistenza è il modo di ottenere risultati politici, ma la visione deve essere chiara, in termini di strategia, tattica, uso dei mezzi possibili e delle opportunità”. E poi ancora “le fazioni palestinesi devono essere convinte che l’azione politica influenza la loro forza tanto quanto fa l’azione militare, sin quando è usata nei modi appropriati”. Ancora: “è sbagliato dire che l’azione politica significa abbandonare la resistenza. L’azione politica significa rimanere fermi e pretendere i propri diritti con i propri sostenitori alle spalle”. I modelli citati sono tanti, e non solo i tipici modelli della tradizione araba e musulmana, da Salaheddin a Omar al Mukhtar. Sono Gerry Adams, il Sinn Fein, il rapporto con l’IRA. Sono Nelson Mandela. Sono addirittura Winston Churchill.
Non è la prima volta che Ghazi Hamad pone la questione del rapporto tra quella che chiama resistenza, e cioè la lotta armata, e la politica. Lo fa da quasi 15 anni. Hamad peraltro aveva già partecipato nel 1996 all’esperienza del partito Al Khalas, vera e propria ala politica di Hamas, un organismo che – insomma – voleva segnare una divisione netta tra l’ala militare e la dimensione politica degli islamismi. Certo, non bisogna assolutamente sovrastimare il suo ruolo: Ghazi Hamad, così come uno dei suoi migliori amici, il consigliere di Ismail Haniyeh, Ahmed Youssef, l’autore delle lettere pubbliche che Hamas ha inviato alla leadership americana, sono stati spesso – soprattutto negli ultimi due anni – messi ai margini del who’s who del movimento islamista. Ma la discussione sul rapporto tra resistenza e politica, invece, è il centro della discussione dentro Hamas da almeno cinque anni, se non da sette.
È una discussione lunga, difficile, complessa, che ha avuto un primo, eclatante risultato nel 2005, quando Hamas ha deciso di aderire alla tregua proposta da Mahmoud Abbas, e di sospendere gli attentati terroristici dentro le città israeliane. Una decisione, questa, che è andata di pari passo con un dibattito politico intenso, e tutto clandestino, che ha portato Hamas verso la partecipazione alle elezioni politiche del 25 gennaio del 2006.
Non mi sembra dunque un caso, insomma, se nel discorso di Barack Obama al Cairo è comparsa una parola a cui magari è stata data poca rilevanza, quando il discorso è stato dissezionato dagli opinionisti di tutto il mondo. E la parola, appunto, è resistenza. Il presidente statunitense l’ha usata, appunto, nel passo del discorso dedicato e diretto esplicitamente a Hamas.
“La resistenza attraverso la violenza e le uccisioni è sbagliata e non vince. Per secoli, i neri in America hanno sofferto i colpi di frusta come schiavi e l’umiliazione della segregazione. Non è stata la violenza che ha fatto guadagnare loro diritti full and equal. È stata l’insistenza pacifica e determinata sugli ideali al centro della fondazione dell’America. La violenza è una strada senza uscita. Non è né un segno di coraggio né di potere lanciare razzi a bambini mentre dormono né far saltare in aria donne anziane su di un autobus. Questo non è il modo in cui si rivendica un’autorità morale. Questo è il modo in cui si arrende”.
Ecco, io credo che questa parola, resistenza, dentro il discorso del presidente Obama sia stata una delle chiavi che hanno segnato le prime reazioni di Hamas – tutte positive – all’intervento del presidente al Cairo. Sia da Gaza, sia da Damasco, la leadership islamista ha reagito immediatamente sottolineando il cambio di tono rispetto all’amministrazione precedente. E di questo cambio di tono, secondo me, fa parte anche questa parola. Perché – proprio mentre condanna il terrorismo (che non nomina) – indica a Hamas che gli Stati Uniti non condannano chi lotta per rivendicare i propri diritti. Ma lo devono fare con mezzi pacifici.
Hamas non ha abbandonato l’uso di mezzi violenti. Non ha abbandonato quella che Ghazi Hamad chiama resistenza. Il braccio politico dei fratelli musulmani palestinesi ha fatto il suo ingresso sulla scena attraverso la prima intifada, e dunque attraverso il primo scontro diffuso tra la popolazione palestinese e Israele dopo il 1967. Ha usato la strategia della tensione e il terrorismo dentro le città israeliane tra 1994 e 2005. Ha abbandonato gli attacchi suicidi ma ha continuato a usare il lancio di razzi Qassam sulle cittadine del Negev. L’uso della violenza, insomma, continua. Così come, però, continua la discussione all’interno di Hamas sull’uso della resistenza. Che – è sempre Ghazi Hamad a dirlo, ma se ne potrebbero citare altri – non è una strategia, è un mezzo.
Ed è su questo punto centrale che, secondo me, sono concentrati gli sforzi di coloro che stanno contattando Hamas in questi ultimi mesi, dopo l’Operazione Piombo Fuso che – paradossalmente – ha riportato Hamas sul parterre, tra gli attori del conflitto israelo-palestinese. Da allora, non c’è settimana in cui non si scopre che qualcuno, soprattutto da Occidente, è andato a parlare con i dirigenti di Hamas. Non si parla, certo, delle cancellerie europee, ma di parlamentari, di personalità, di quelli che a vario titolo definiamo facilitatori. Compresi nomi importanti, come Gerry Adams, che è andato a Gaza più di qualche settimana fa. E come Jimmy Carter, che dovrebbe essere a Gaza oggi e che ha già incontrato, negli scorsi giorni, Khaled Meshaal. Così come fu lo scorso anno, Carter ha di nuovo detto alla nuova amministrazione americana che bisogna trovare il modo di parlare con Hamas, perché senza Hamas non si arriva alla pace. In questi ultimi giorni è andato oltre, perché le notizie riportano anche la presenza di “una visione” per risolvere il conflitto da parte dell’ex presidente americano. Che Hamas prenderà in considerazione, ha detto una fonte interna al movimento islamista, se sarà definita in un testo scritto.
Attorno a Hamas, insomma, si muove più di qualcosa. A conferma che più di qualcosa sta cambiando dall’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca. L’attivismo di George Mitchell, che ieri ha incontrato Bashar al Assad a Damasco, è parte integrante – se non la parte più evidente – di questo cambio di passo. È certo, però, che il nodo più importante da risolvere per un qualsiasi approccio più incisivo verso il fronte palestinese è lo scontro tra Fatah e Hamas. Uno scontro su cui la comunità internazionale, diciamo la comunità occidentale, ha molto da rimproverarsi. Chi ha seguito attentamente quello che è successo nei Territori palestinesi occupati dal 2006 a oggi, dall’indomani della vittoria di Hamas alle elezioni del 25 gennaio 2006, sa bene quanto abbiamo inciso sul Palestinian divide, sulla divisione politica palestinese. La strategia del Quartetto è stata quella del progressivo e quasi totale isolamento dell’ANP a guida Hamas. Il lavorio dietro le quinte, confermato dalle inchieste giornalistiche così come da documenti altrettanto esplosivi come il rapporto di fine mandato di Alvaro De Soto, è andato ben oltre l’isolamento di Hamas. Ha inciso sulla frattura tra le due maggiori componenti della politica palestinese, rendendo impossibile la condivisione del potere. Se Hamas ha mantenuto le sue proverbiali rigidità nella gestione del rapporto con Fatah, nella stessa gestione della cosa pubblica, Fatah – dal canto suo – non ha mai voluto accettare di aver perso le elezioni. Ed è indubbio che su questa posizione di Fatah, che ha continuato a sopravvivere sulla sua mancata riforma interna, hanno inciso fortemente i nostri consigli, i consigli di parte della nostra diplomazia e delle nostre cancellerie. Abbiamo fatto credere a Fatah, insomma, che non aveva perso. L’abbiamo sostenuta in funzione anti-Hamas, e non abbiamo provato altre strade: quella, soprattutto, di imbrigliare Hamas dentro la cornice istituzionale in cui Hamas si era già inserita.
Credo, insomma, che soprattutto all’Europa sia mancata fantasia, visione, e una strategia di lungo respiro nel reagire a quello che di nuovo stava succedendo sul fronte palestinese. L’unica reazione, vecchia, è stata quella di sostenere la dirigenza palestinese che l’Europa conosceva, con cui aveva lavorato, con il risultato di creare una frattura sempre più profonda tra quella dirigenza e l’opinione pubblica palestinese che attraverso le urne aveva deciso altro. Ora, l’Europa si trova a doversi occupare – con tre anni di lutti e radicalizzazioni in più – di quello di cui si è occupata in modo maldestro dal 2006 in poi. Ricomporre la frattura interna alla politica palestinese, tentare di moderare – per quanto possibile – Hamas e trovare un modo perché Hamas e Fatah condividano il potere. Quello che dovevano fare nel 2006. Nel frattempo, c’è stato il colpo di mano di Hamas a Gaza (sulle cui responsabilità ad ampio raggio molto si è scritto), l’Operazione Piombo Fuso, e una situazione molto delicata in Cisgiordania tra Hamas e l’ANP.
Cosa potrebbe succedere? L’Egitto sembra deciso, stavolta, a fare il lavoro per la comunità internazionale, e a premere con tutta la sua forza sui palestinesi per raggiungere un accordo. L’accelerazione c’è stata proprio dopo il discorso di Obama. E la presenza di Khaled Meshaal al Cairo, pochissimi giorni fa, è la testimonianza visiva dell’impegno egiziano. Meshaal non frequenta molto i paesi arabi. È semmai Mussa Abu Marzuq a tenere le fila (a volte tenui) di un rapporto difficile tra Hamas e l’Egitto. Meshaal sembra, però, voler centralizzare sempre di più il potere nell’ufficio politico a Damasco, ed è dunque una notizia di rilievo il fatto che si sia mosso per andare al Cairo. Dove c’era anche Mahmoud A-Zahhar, a testimoniare che sono soprattutto Damasco e Gaza i luoghi del potere di Hamas. La Cisgiordania è, da mesi, tagliata fuori, i dirigenti islamismi della West Bank non possono avere voce in capitolo, nonostante alcuni di loro siano considerati molto più pragmatici. A incidere sulla loro assenza, è sicuramente lo scontro tra Hamas e Fatah in Cisgiordania. Così come il fatto che la gran parte di loro è dentro le carceri israeliane, decine, tra ministri e deputati eletti nel parlamento palestinese. E anche come uomini considerati un possibile ponte tra le fazioni palestinesi così come tra la comunità internazionale e la scena islamista. Un nome tra tutti, Nasr Eddin A- Shaer, arrestato di nuovo qualche mese fa, e per la cui liberazione si stanno spendendo anche esponenti dell’intellighentsjia ebraica e israeliana come – per esempio – Avi Shlaim. Nasr Eddin a Shaer aveva incontrato anche Jimmy Carter lo scorso anno, durante il viaggio dell’ex presidente americano in Medio Oriente.
Fonte: Lettera22 e Blog di Paola Caridi
19 gigno 2009