Repubblica Democratica del Congo, la deriva di un continente


Pier Francesco Curzi


La RDC, sette volte l’Italia, e’ un elefante timoroso che vive nel terrore, nel sangue di conflitti regionali e in un quadro socio-economico devastato.


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La RDC, sette volte l’Italia, e’ un elefante timoroso che vive nel terrore, nel sangue di conflitti regionali e in un quadro socio-economico devastato. A est movimenti ribelli con nomi esotici si sostituiscono uno all’altro nel fronteggiare un esercito regolare allo stremo.

Nessun paese come la Repubblica democratica del Congo riesce ad incarnare meglio la deriva di un continente. Un elefante timoroso che nel complesso dei suoi oltre 2,3 milioni di kmq (sette volte l’Italia), vive nel terrore e nel sangue di conflitti regionali e in un quadro socio-economico devastato.A est movimenti ribelli con nomi esotici si sostituiscono uno all’altro nel fronteggiare un esercito regolare allo stremo e la missione di peacekeeping dell’Onu «Monusco». Quando il presidente Joseph Kabila, a novembre, ha annunciato di aver sconfitto la guerriglia M23 di ispirazione ruandese, il peggio sembrava alle spalle. Si sbagliava. Dalle ceneri dell’M23 sono nati altri gruppi di riottosi pronti a destabilizzare le regioni del Nord e Sud Kivu, attorno ai capoluoghi Beni e Goma. Intanto il Ruanda insinua i suoi interessi nelle foresta congolese ricca di coltan, diamanti, oro, cassiterite, rame armando i gruppi di fuoco. E adesso, da poche settimane, è scoppiata pure la grana del Katanga, altra regione dal sottosuolo generoso, a sud-est. Qui i ribelli hanno formato il movimento Bakatakatanga, «tagliare il Katanga in due». Nei giorni scorsi interi villaggi sono stati dati alle fiamme, ci sono vittime e file di profughi in viaggio verso i campi allestiti dalla Monusco e gestiti dalle organizzazioni umanitarie.
Da Kinshasa sembra tutto lontano, irreale, quasi che non succeda. A 2.500 km dall’epicentro degli scontri, nella sua tana dorata, il presidente Kabila cerca la quadra. Senza accorgersi che la capitale sta marciando spedita verso l’implosione sociale. Kinshasa somiglia a un’enorme prigione a cielo aperto dove 10 milioni di persone stentano a sopravvivere. Nel forno dell’equatore si bruciano le speranze delle nuove generazioni. Condizioni di vita malsane, quartieri abbandonati, i canali intasati di rifiuti trascinati da un’area all’altra dalle piogge torrenziali, fino a sfociare nel fiume Congo. Non esiste un sistema fognario, non c’è alcuna forma di raccolta dei rifiuti, l’immondizia viene trattata sul posto, accatastata in attesa che qualcuno la bruci scatenando esalazioni pericolose. Di giorno è il caos, anarchia totale lungo le strade ridotte a mulattiere, migliaia di furgoncini scarburati, i Fula-Fula, sfrecciano rischiando di fare morti e feriti. Di notte esplodono le feste nelle baraccopoli lontane dal centro ricco a base di musica ad altissimo volume e birra a fiumi.

Guardie e ladri nella «zona rossa»
Per gli occidentali è più pericoloso girare nella cosiddetta «zona rossa», piuttosto che nelle periferie disastrate. Gombe è il quartiere a cinque stelle dove operai in livrea curano le aiuole e spazzano granelli di sabbia dai marciapiedi, dove i golfisti possono sfruttare un 18 buche di livello e i ristoranti consegnano conti stratosferici. Chi se lo può permettere gira scortato. Diplomatici, uomini d’affari, banchieri, funzionari di ong li scorgi attraverso i vetri opachi dei suv. Ad altri può succedere di essere fermati per strada, presi e impacchettati dentro un’auto sotto la minaccia delle armi e, nella migliore della ipotesi, ripuliti degli effetti personali e scaricati in qualche angolo fetido della città. I poliziotti guadagnano circa 60 dollari al mese, li noti oziare sotto una jacaranda o in lavori collaterali. I più onesti sono parcheggiatori abusivi, altri alzano il tiro capeggiando bande di criminali specializzate in rapimenti: «Il verbale di denuncia lo abbiamo stilato – spiega uno stanco funzionario della centrale -, ora per avviare le ricerche dei criminali ci servono i soldi. Bastano anche 5mila franchi (meno di 5 dollari, ndr) per mettere benzina nell’auto». Non se la passano meglio insegnanti, infermieri e impiegati amministrativi, i cui stipendi raramente raggiungono i 100 dollari mensili. Il tasso di disoccupazione è incalcolabile, il grosso degli occupati svolge lavori saltuari e mal retribuiti. Ci sono attività commerciali, dal negozio di alimentari ai casottini per la rivendita di ricariche telefoniche, depositi di cemento e bar con birra e spiedini a fuoco vivo.
La società congolese esprime i limiti e le paure della sua guida. Il senso di ostilità e nervosismo è serpeggiante. Da un po’ il governo ha tolto il divieto di scattare fotografie, ma la gente non lo sa. Se sorpresi con l’obiettivo spianato si rischia il linciaggio. Ai bordi delle strade si muore di indigenza e i cadaveri restano a lungo nella polvere prima che qualcuno li rimuova.
Vorrei scattare foto anche all’interno del mitico Stade Tata Raphael, sede del più grande incontro di pugilato della storia, ma capisco da solo che non è il caso. È la sera del 30 ottobre 1974, Muhammad Ali, di rientro da una squalifica, incrocia i guantoni col campione in carica, George Foreman. È stato l’allora presidente Mobutu a scegliere la location: «Pensava che Foreman avrebbe fatto polpette di Ali – racconta Theophile, uno degli addetti dello Stade Tata Raphael -, non andò così. Rammento la vigilia, carica di tensione, quando gli aerei coi due staff atterrarono a Ndjili. Ali di folla. Foreman scelse l’albergo Internazionale Kinshasa; Ali invece venne ospitato nella residenza di Mobutu». Oggi lo Stade Tata Raphael cade a pezzi. Dentro è in corso una partita di calcio di 2a divisione, ma il pubblico sembra più interessato a fare affari nel caos che regna all’interno.

Le larghe intese africane
Sembrerà strano parlare di larghe intese in Africa. Eppure anche in Rdc Joseph Kabila sta affrontando una crisi istituzionale senza precedenti. Gli organismi internazionali, a partire dall’Unione Africana, pressano affinché trovi un accordo in parlamento per fronteggiare l’emergenza nelle regioni orientali. Rieletto nel 2011, Kabila decadrebbe tra due anni, a meno di mettere mano alla Costituzione: «Alla fine un escamotage lo troverà – attacca Jason Luneno, deputato del partito di opposizione Union pour la nation congolaise (Unc) -. Il suo tentativo di formare un governo di unità nazionale è una barzelletta. Parte dell’opposizione è stata comprata da Kabila. Noi teniamo duro, ma siamo sempre più soli. I tempi elettorali sono scaduti, secondo la Costituzione nel 2016 se ne dovrà andare».
Con la guerra aumentano le sofferenze: «Nelle province orientali si calpestano i diritti, ci sono violenze sessuali su donne e ragazze, uccisioni, distruzioni – afferma Dolly Ibefo Mbunga, presidente della ong La voix des sans voix -. È una catastrofe, eppure il governo sostiene che è tutto sotto controllo. La crisi umanitaria arriva fino a Kinshasa, dove la gente non può permettersi cure mediche, mandare i figli a scuola, sfamarli a volte. Ma non si può scendere in strada per protestare contro il governo. Trasporti pubblici al collasso, ferrovie smantellate. Siamo un Paese isolato, prossimo al disfacimento».
L’ambasciata italiana a Kinshasa lavora a pieno regime, nonostante i tagli della Farnesina. L’ambasciatore Pio Mariani è in scadenza, ma nessuno vuole sostituirlo, la fama di Kinshasa ha varcato i confini. Ad aggravare la situazione la storia del blocco delle adozioni voluto dal governo della Rdc a settembre 2013. Le coppie di genitori italiani sono rientrate dall’Africa a mani vuote. Il personale dell’ambasciata si sta facendo in quattro per loro. I piccoli stanno bene, sicuramente meglio della quasi totalità dei bambini congolesi, sterminati da malattie sconosciute al primo mondo: Pio Mariani si dice «ottimista sul buon esito della vicenda. Intanto i bambini ricevono cure, pasti regolari e tutta l’assistenza possibile».

Fonte: Il Manifesto
22 febbraio 2014

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