Quello che la guerra non ci lascia vedere
Renato Sacco
Le campagne militari non hanno risolto niente ma, anzi, causato ulteriori problemi e sofferenze.
A Kabul piove. La cosa è abbastanza rara. Curiosa. E la pioggia rende ancora più surreale l’arrivo in Afghanistan a 10 anni dall’attentato alle Torri gemelle, con una delegazione promossa dalla Tavola della pace con l’associazione americana dei familiari delle vittime. Una delegazione per esprimere prima di tutto un forte gesto di solidarietà con il popolo afgano e rendere omaggio alle vittime della guerra e del terrorismo. Ma anche un’occasione per riflettere: a cosa è servito scatenare una simile guerra? E ora, cosa dobbiamo fare? Sono domande fondamentali non solo per noi qui a Kabul, ma per ogni persona che si interroga sul senso di scelte che segnano la vita di tante, troppe persone. La guerra e il terrorismo distruggono, sempre. Lo abbiamo visto con le Torri gemelle, lo vediamo a Kabul, ma è sotto gli occhi di tutti anche la situazione dell’Irak, della Palestina e di Israele, della Libia di questi giorni.
In Afghanistan l’Italia spende 700 milioni di euro ogni anno. Quante cose si sarebbero potute fare, e si potrebbero ancora fare, per la qualità della vita delle persone. Per dare quelle cose essenziali che rendono ogni persona degna di questo nome. E non schiava di chi, per un po’ d’acqua o di pane, ti arruola nella logica della guerra.
Siamo a Kabul per incontrare i rappresentanti della società civile afgana. Per invitarli alla marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli, il 25 settembre. Riflettere è doveroso per demolire tabù che portano a pensare che tutti gli afgani sono talebani e terroristi. Che tutti gli americani sono per la guerra. Visti i risultati disastrosi del conflitto, evidenti qui in Afghanistan, ma anche in Irak dove oggi l’energia elettrica, per esempio, viene erogata solo tre ore al giorno.
Spesso ritorna la domanda: dove sono finiti i pacifisti? Davanti a ogni tragedia sembra che la colpa sia sempre di chi vuole la pace. Certo, dopo le grandi manifestazioni per la pace dal 2001 fino al 2003, contro la guerra in Irak, qualcuno si chiede: perché non si vedono più quei cortei? Innanzitutto va ricordato che dietro all’appuntamento del prossimo 25 settembre c’è un grandissimo lavoro sommerso di informazione, riflessione e documentazione da parte di giovani, associazioni, Enti locali per la pace. E poi ci sono le denunce che spesso non vengono raccolte né dai media né dalla politica né, purtroppo, a volte dalla Chiesa.
Se dobbiamo difendere la vita, forse bisogna intraprendere con maggior coraggio il taglio delle spese per gli armamenti, che uccidono anche se non vengono usati. In particolare in Italia il popolo della pace chiede, in tempi di crisi e di tagli per la manovra finanziaria, di ridurre le spese militari. Il progetto dei cacciabombardieri F 35 ha un costo globale di oltre 15 miliardi di euro. Ognuno di questi aerei costa oltre 150 milioni di euro. Non è pura follia? Perché anche dalla Chiesa non arriva una forte denuncia di questo spreco che uccide e crea solo morte?
Ma è significativo il silenzio quasi totale di questi giorni, da parte dei politici, sulle spese militari. Si potrebbe definire un vero e proprio tabù che nasconde, o rivela, grandi interessi, molto evidenti proprio in questi giorni con la tragica vicenda della guerra in Libia. E’ possibile che di fronte a una guerra le preoccupazioni più evidenti di una parte della politica siano state quelle di contrastare l’arrivo dei profughi? Ecco, chi vuole la pace è accanto ai profughi, alle vittime, di oggi e di ieri. Grida, nel silenzio delle strade di Kabul, che la guerra è avventura senza ritorno.
Intanto a Kabul non piove più. Il sole sta tramontando e alcuni bambini sul tetto delle case fanno volare in cielo aquiloni colorati. Accanto a me un anziano con la barba sorride con due occhi pieni di tenerezza. Occhi che un pilota che bombarda da 5 mila metri di altezza non può vedere.
Fonte: Famiglia Cristiana
9 settembre 2011