Primavere arabe sotto esame
Avvenire
«Nelle rivoluzioni, ci sono due tipi di persone: coloro che le fanno e coloro che ne approfittano». Questa massima di Napoleone riassume in qualche modo la condizione attuale dei Paesi attraversati dalle rivolte arabe.
«Nelle rivoluzioni, ci sono due tipi di persone: coloro che le fanno e coloro che ne approfittano». Questa massima di Napoleone riassume in qualche modo la condizione attuale dei Paesi attraversati dalle rivolte arabe. Un po’ ovunque i movimenti che si richiamano all’islam politico, in particolare ai Fratelli musulmani, hanno raccolto i frutti di un imprevisto ribaltamento che non aveva alzato slogan religiosi, ma aspirava a riconquistare libertà e diritti negati da decenni. In alcuni Paesi, come la Tunisia, la transizione verso uno Stato di diritto sembra avviata, anche se non mancano domande sul tasso di democrazia. In altri, come la Siria o lo Yemen, cupi scenari sono ancora aperti. A che punto sono le primavere arabe? E quale futuro per i cristiani che rifiutano la ghettizzazione nei Paesi di cui si sentono cittadini a pieno titolo?
TUNISIA. Islamisti moderati alla prova
Era il 17 dicembre del 2010 quando il gesto disperato del 26enne Mohammed Bouazizi, datosi fuoco in segno di protesta per la mancanza di lavoro e diritti, segnava l’inizio della Rivoluzione dei gelsomini e dell’intera Primavera araba. Dal cuore agricolo del Paese nordafricano (il governatorato di Sidi Bouzid, ndr), messo in ginocchio dalla crisi economica e dall’assenza di politiche sociali, le rivendicazioni si estendevano poi a tutto il territorio tunisino, fino alla capitale, messa a ferro e fuoco da centinaia di migliaia di giovani, esasperati dalla disoccupazione dilagante, dal regime totalitario di Zine el-Abidine Ben Ali, durato 23 anni, e infine dall’aumento esponenziale dei prezzi dei beni di prima necessità. Il 14 gennaio 2011, Ben Ali era costretto a fuggire in Arabia Saudita con parte della famiglia e delle ricchezze del clan. Da allora, lo scenario politico tunisino si è trasformato: dopo tre esecutivi di transizione, il voto legislativo di ottobre ha consegnato le redini del Paese a el-Nahda (La rinascita), partito islamista moderato. Al premier Hamadi Jebali, segretario di el-Nahda, e al presidente della Repubblica Moncef Marzouki, il difficile compito di rassicurare gli investitori stranieri sulla natura democratica dell’esecutivo, così come quello di rispettare le attese dell’elettorato islamico. L’allarme è alto, soprattutto alla luce di frequenti episodi di intolleranza religiosa nei confronti dei cristiani. Allerta anche per la modifica, nella nuova Costituzione tunisina, dell’articolo che sanciva l’uguaglianza fra uomo e donna, ora ritenuti solo "complementari".
MAROCCO. Il re saggio evita lo scacco
Anche la transizione marocchina avviene sotto il segno dell’islam moderato, con la vittoria, il 25 novembre del 2011, di Adala ua Tanmia (Giustizia e sviluppo), partito guidato da Abdelillah Benkirane, attuale premier. Nel regno di Mohammed VI, all’inizio del 2011 le rivendicazioni sociali non hanno fatto in tempo ad assumere la violenza e l’intensità di quelle tunisine o egiziane. La prontezza politica del sovrano le ha frenate, senza bisogno del pugno di ferro: apparso in televisione, vincendo la propria naturale ritrosia, il re ha promesso rapidi emendamenti costituzionali, seguiti da un referendum popolare. Dalle parole ai fatti, nell’estate del 2011 gli elettori hanno approvato il ridimensionamento dei poteri del re a favore di quelli legislativo ed esecutivo. Poi, il voto politico ha rinnovato la camera bassa del Parlamento. Gli islamisti assicurano di voler «garantire la libertà di coscienza» (Benkirane), ma nella pratica la libertà religiosa è fragile: le accuse di proselitismo e apostasia sono dietro l’angolo per i cristiani, meno dell’1%.
LIBIA. C'è un nuovo presidente, manca la sicurezza
Qui la rivolta contro il regime di Muammar Gheddafi ha potuto trionfare solo al prezzo di oltre sei mesi di guerra che hanno provocato 50mila morti. Un prezzo, questo, di gran lunga superiore a quello pagato dalla rivolta del gelsomino in Tunisia o dall’Intifada di Piazza Tahrir in Egitto. Con la caduta del rais, ucciso lo scorso ottobre, il governo del Paese era stato assunto ufficialmente dal Consiglio nazionale transitorio (Cnt), l’organismo politico della ribellione. Fino a mercoledì sera, quando il Cnt, rappresentato da Mustafa Abdul-Jalil, ha rimesso i suoi poteri al Congresso generale nazionale (Cgn), un’assemblea costituente eletta il 7 luglio scorso. Si trattava della prima transizione di potere pacifica nel Paese dopo oltre 40 anni di dittatura. Per il Paese nordafricano si apre così una nuova fase politica. L’Assemblea, che ieri ha eletto un suo presidente nella persona di Mohammed Magarief, uno storico oppositore islamico al regime di Gheddafi, dovrà ora scegliere un nuovo governo, che resterà in carica fino alle elezioni in base alla nuova Costituzione, la quale sarà riscritta proprio dal Cgn. Come già avvenuto in Tunisia ed Egitto, anche qui è previsto un dibattito tra le forze politiche sul rapporto tra islam e Stato. Allo scrutinio del 7 luglio, 39 seggi sono andati ai partiti moderati dell’Alleanza delle forze nazionali, mentre il partito Giustizia e costruzione, vicino ai Fratelli musulmani, si è fermato a 17 seggi. Agli indipendenti erano riservati gli altri 120 seggi.
Tante le sfide che aspettano il nuovo esecutivo. Anzitutto, la mancata sicurezza che regna nel Paese, dove restano attive molte bande armate e spesso si registrano scontri tra fazioni contrapposte per il controllo del territorio. Proprio ieri un generale dell’esercito, alto responsabile del ministero della Difesa, Mohammed Hadiya al-Feitouri, è stato assassinato al termine della preghiera del venerdì, mentre usciva dalla Moschea. Diverse incognite regnano anche sulla rinascita della comunità cristiana, costituita principalmente da lavoratori africani, fuggiti durante la guerra. Negli ultimi mesi, alcuni estremisti si sono resi protagonisti di atti simbolici più che di gesti di violenza, come il danneggiamento di alcune statue e di cimiteri cristiani.
EGITTO. I militari non si fanno da parte
L’elezione alla presidenza dell’islamista moderato Mohammed Morsi, numero uno del partito Libertà e giustizia ed ex fratello musulmano, e il duello con il Consiglio supremo delle forze armate (Csfa) per la gestione del potere rappresentano la tappa più recente di un percorso tumultuoso intrapreso dall’Egitto nel gennaio del 2011. Di fatto, nessuno può dire a che punto sia la transizione democratica egiziana: si può solo constatare che le proteste di piazza divampate al Cairo – e nelle principali città del Paese – dal 25 gennaio fino all’11 febbraio 2011 hanno provocato l’uscita di scena del presidente Hosni Mubarak, dimessosi, e dei vertici del partito Nazionale democratico (Pnd), al potere per oltre 30 anni. Ora, Mubarak è in coma all’ospedale di Tora e su di lui pesa una condanna all’ergastolo, in quanto mandante del massacro di manifestanti. I figli Gamal e Alaa sono ancora sotto processo per corruzione e distorsione di ingenti somme di denaro. Il braccio destro Omar Suleiman – dato per papabile alla presidenza, al momento dello scoppio dei tumulti – è deceduto un mese fa a causa di un tumore. L’esercito, al contrario, è ancora al suo posto, con il feldmaresciallo Hussein Tantawi a capo della Difesa e dello Csfa. Il voto politico del novembre 2011-gennaio 2012 e quello presidenziale del maggio-giugno 2012 hanno assegnato alla Fratellanza musulmana il dopo-Mubarak, ma le cose non sono così semplici: i militari, ex colleghi di Mubarak, non hanno nessuna intenzione di vedere ridimensionato il proprio ruolo, come accaduto in Turchia. La camera bassa del Parlamento, l’Assemblea popolare, è stata sciolta in applicazione a una sentenza della Corte suprema egiziana. Il nuovo presidente ha poteri limitati. Di più, episodi di forte intolleranza religiosa – massacro di Maspero, nell’ottobre del 2011 – ai danni della comunità copta (circa 8 milioni di persone) e focolai di terrorismo jihadista nella riottosa penisola del Sinai danno l’idea di un Paese in bilico, a rischio instabilità. Volenti o nolenti, militari e islamisti dovranno trovare una voce unica per rilanciare lo sviluppo economico del Paese, bruscamente arrestato dalla rivoluzione popolare.
SIRIA. Guerra civile, Onu impotente
Qui la rivolta contro il regime del Baath è precipitata in «un conflitto armato non internazionale», secondo l’eufemismo utilizzato dalla Croce Rossa per definire la guerra civile. Le manifestazioni pacifiche, scoppiate alla metà del marzo 2011 per chiedere la fine della legge di emergenza e l’introduzione del multipartitismo, si sono via via trasformate in veri e propri scontri armati tra l’esercito lealista e i gruppi dei ribelli, riuniti in un "Esercito libero siriano" che fa da pendant militare a un Consiglio nazionale siriano all’estero. Ma nelle palude siriana agiscono anche altri protagonisti, come i jihadisti musulmani, affluiti da più parti per abbattere «il regime infedele degli alauiti"», oppure le milizie filo-governative Shabbiha, entrambi responsabili di numerose atrocità che sembrano avere l’unico obiettivo della pulizia confessionale. Nonostante diverse defezioni di tanti politici (non ultima quella del primo ministro Riad Hijab) e l’uccisione di alti esponenti militari (l’attentato del 18 luglio scorso contro la cellula della sicurezza nazionale), il regime di Assad sembra lontano dal crollo. Fallita la mediazione di Kofi Annan, bloccata l’azione del Consiglio di sicurezza per il veto di Russia e Cina, gli antagonisti locali e internazionali sembrano scommettere sulla soluzione militare. Gli scontri si sono propagati nelle ultime settimane ai due maggiori centri urbani del Paese, Damasco e Aleppo, in cui risiedono importanti comunità cristiane. Nella loro ultima, drammatica presa di posizione, i leader religiosi cristiani hanno raccomandato ai fedeli di non accettare armi e di non schierarsi nel conflitto. «Non vogliamo diventare un altro gruppo antagonista. Siamo siriani e vogliamo vivere in pace con tutti gli altri siriani», hanno dichiarato in un appello diffuso pochi giorni fa da Fides. Profonda preoccupazione è espressa per la dimensione confessionale che sta prendendo la guerra, la quale paventa lo spettro di una divisione territoriale simile a quella creatasi in Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein. Inutile dire che, anche nel caso siriano, i cristiani potranno pagare un alto prezzo.
YEMEN. La difficoltà di voltare pagina
Molto poco è cambiato dall’uscita di scena di Ali Abdullah Saleh, costretto ad abbandonare la presidenza dopo che una rivolta, scoppiata 18 gennaio 2011, si è conclusa dieci mesi dopo con un accordo che prevedeva il passaggio dei poteri al suo vice in cambio dell’impunità. In realtà, il Paese fatica a uscire dalla transizione. Uno dei pesi maggiori dell’eredità di Saleh è la presenza di membri della sua famiglia all’interno delle istituzioni yemenite e dell’apparato statale. Una presenza che non rappresenta purtroppo l’unica fonte di preoccupazione per il nuovo presidente Abd Rabbo Mansour al-Hadi. Lo spettro dell’islam radicale ripropone infatti l’immagine di un Paese instabile. Nonostante le ultime offensive dell’esercito di Sanaa, alcune zone del sud sono ancora sotto il controllo di Ansar al-Sharia, l’ala locale di al-Qaeda nella penisola araba. La rete terroristica ha firmato pochi giorni fa una strage di cadetti dell’accademia militare di Sanaa. Il 25 marzo scorso, aveva rivendicato l’assassinio dell’insegnante americano Joel Shrum, 29 anni, accusato di «diffondere il cristianesimo».
Fonte: www.avvenire.it
11 Agosto 2012