Primavere arabe e autunni italiani. In morte di Angelo Di Carlo
Sergio Segio - Vita.it
La protesta estrema di Mohamed è stata il detonatore della primavera insurrezionale tunisina. Quella di Noureddine ha avuti solo qualche editoriale. Quella di Angelo provocherà forse qualche lacrima di coccodrillo alla Camera dei deputati. Purché ci siano le telecamere a riprendere. Diversamente, non ci saranno neppure quelle.
Parafrasando un Grande Timoniere del secolo scorso si potrebbe dire che ci sono vite leggere come piume che talvolta possono divenire morti pesanti come montagne.
La vita di Angelo Di Carlo certo è stata leggera e difficile. Leggera, perché come tutti i precari e i senza lavoro non contava assolutamente nulla in una società ripiegata senza scampo sul disvalore del denaro e sulla dittatura del consumo. La massima dei giovani antagonisti «Lavora, consuma, crepa», andrebbe attualizzata in: «non lavori, non consumi, crepi».
Una vita difficile per lo stesso motivo: perché, come ha avuto modo di bestemmiare l’attuale ministro del Lavoro (sic!) Elsa Fornero, il lavoro non è un diritto, a dispetto delle utopie sovversive dei Padri costituenti. E senza un diritto fondamentale come quello, vivere diventa fatica, perdita di identità e di riferimento, oltre che di reddito; una fatica che può rendere possibile persino scegliere di sacrificare la propria vita.
Angelo Di Carlo ha scelto un modo terribile e simbolicamente potente per farlo: l’11 agosto si è dato fuoco a Roma, davanti a Montecitorio, il luogo del potere politico e delle scelte che decidono condizioni e destino di tutti i cittadini. Dopo una dolorosa agonia, ieri Angelo è deceduto.
Dicono le scarne cronache che il figlio erediterà i 160 euro che costituivano il patrimonio di questo cinquantaquattrenne ex operaio specializzato di Forlì, che aveva perso il lavoro all’inizio dell’estate. Una vittima della crisi, ma anche delle non risposte alla crisi.
Sempre ieri il presidente del consiglio Mario Monti, dal Meeting di Rimini, si è detto ottimista e ha affermato di intravedere l’uscita dalle turbolenze e problematicità dell’economia. Come sempre, i grandi scenari non si curano dei dettagli e i grandi uomini sono inconsapevoli delle sofferenze dei piccoli. Non risulta dunque che il premier Monti abbia commentato la morte del disoccupato Angelo Di Carlo, né che questa lo abbia reso un po’ meno ottimista nel giudizio sulla situazione italiana.
Il suo ministro del Lavoro Fornero, invece, nella stessa giornata ha dovuto – per competenza, si immagina – esternare al riguardo. Esternare si fa per dire, dato che si è trattato di un non-commento: «È una cosa molto triste, non ci sono parole», ha lapidariamente dichiarato alla stampa.
Invece, di parole potrebbero e dovrebbero essercene moltissime. Magari non solo di cordoglio ma anche di resipiscenza.
Angelo Di Carlo, detto “Sgargiante”, era un lavoratore impegnato. A Forlì coltivava interessi politici nelle Liste civiche e nei gruppi di base faceva parte dell’associazione ambientalista Clan-Destino. La sua vicepresidente, Michela Nanni, ha commentato la morte di Angelo auspicando che, almeno, «smuova le coscienze, soprattutto dei politici».
È facile prevedere che non sarà così, che la sua morte sarà una montagna che partorirà il topolino della disattenzione politica e mediatica e della perseveranza nell’ingiustizia sociale; quella stessa che caratterizza i provvedimenti legislativi economici e in materia di lavoro del governo Monti.
La morte di Angelo somiglia, come in una fratellanza del dolore, a quella, dimenticata, di Noureddine Adnane che, come tanti, aveva lasciato il Marocco per approdare a Palermo. Alla speranza di un futuro aveva sacrificato anche il suo nome: nel suo mestiere di ambulante era infatti diventato “Franco”. Per tutti, tranne che per quei vigili urbani che al suo nome vero intestavano continue e vessatorie contravvenzioni, nonostante Noureddine avesse permesso di soggiorno e licenza di commercio. Il 10 febbraio 2011, di fronte ai vigili (uno dei quali, militante di Forza Nuova, si faceva chiamare Bruce Lee e aveva una svastica tatuata sul braccio) che volevano sequestrargli la merce, Noureddine si è cosparso di benzina e si è dato fuoco. Come Angelo, è morto dopo giorni di atroci sofferenze.
Anche Mohamed Bouazizi è morto bruciato vivo, pure a lui i poliziotti volevano sequestrare la povera merce che tentava di vendere. Faceva lo stesso lavoro di Noureddine ma aveva scelto di rimanere al suo paese, la Tunisia. Si è dato fuoco il 17 dicembre 2010 e ha agonizzato sino al 4 gennaio 2011.
Tre vite leggere come piume. Tre morti pesanti come montagne.
La protesta estrema di Mohamed è stata il detonatore della primavera insurrezionale tunisina. Quella di Noureddine è stata accompagnata solo da qualche editoriale. Quella di Angelo provocherà forse qualche lacrima di coccodrillo alla Camera dei deputati, alla ripresa settembrina. Purché ci siano le telecamere a riprendere. Diversamente, non ci saranno neppure quelle.
Sergio Segio – Vita.it
21 agosto 2012