Pranzo di gala


Emanuele Giordana - Lettera22


Il pranzo del venerdì si svolge a casa di un personaggio autorevole. Le donne, di rigore, stazionano nelle cucine. Invisibili. Parenti e giovinotti di famiglia si occupano delle vivande e del rigido rituale che precede, segue, conclude il lauto pranzo. Un reportage da Kabul tra vivande, anacardi, arance e visioni del mondo…


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Pranzo di gala

Di ritorno da Kabul – La fortuna aiuta il cronista, non solo gli audaci.
A leggere ricerche e sondaggi ci si fa un'idea di cosa pensano gli afgani, ma il riscontro delle evidenze tratteggiate da grafici e torte, istogrammi e percentuali, bisogna raccoglierlo per strada. Coniugando la fredda e pur sempre opinabile matematica dei dati, all'umore della gente. Un passaggio che richiede tempo e fortuna. Che arriva di venerdi con l'invito a un pranzo in piena regola, per il giorno di festa, nella periferia Sud della capitale. Quale occasione migliore che un evento conviviale perché l'ospite si rilassi e la conversazione si sciolga. E vengano finalmente fuori le cose che la gente vi dice a mezza bocca, altrimenti intimorita o più semplicemente sospettosa, visto che siamo bene o male degli appartenenti alla comunità degli occupanti/donatori. I ricchi eserciti – civili o in divisa – che stazionano nel paese.
Il pranzo del venerdì si svolge a casa di un personaggio autorevole. Le donne, di rigore, stazionano nelle cucine. Invisibili. Parenti e giovinotti di famiglia si occupano delle vivande e del rigido rituale che precede, segue, conclude il lauto pranzo: scorrono grandi piatti di kabuli palau, diversi manicaretti a base di montone, preziosi bulani (ravioli ripieni), salse allo yogurt e pasticci di verdura. L'immancabile piatto di crudità e il passaggio della brocca con l'acqua calda per lavare le mani. La sala è stretta e lunga con tappeti e kylim una schiera di cuscini su cui far riposare la schiena. Si mangia seduti ai bordi di un largo tappeto su cui viene appoggiata una tovaglia di plastica perché vi scorrano i piatti di portata. E si mangia in silenzio. Solo qualche battuta e la preoccupazione costante che l'ospite sia comodo, non gli manchi nulla, abbia gustato il pollo alla brace e il prosciutto di montone, l'umido di vacca, le arance a fine pasto che un commensale si occupa di spaccare in quattro appoggiandole accanto agli anar, i sugosi melograni dai rubizzi pallini di succo rosso.
Dopo il te e una lunga teoria di pistacchi, nocciole, mandorle, anacardi la conversazione si scalda. C'è un generale di polizia, un professionista stimato che fortunatamente si occupa di fare la traduzione, e un paio di signori il cui il tradizionale abito afgano – uguale per tutti – non tradisce lo status sociale. Che però si comprende in fretta: “L'ho spiegato a Karzai – dice il più apparentemente dimesso dei due che si rivela subito un ottimo intrattenitore – e l'ho anche detto a Saleh (il capo dell'intelligence) e al ministro dell'Interno: perché non dite la verità? Che a settanta dollari al mese la polizia è corrotta e che la temiamo più dei banditi?”. Questi due signori gestiscono una ditta di trasporti di un certo rilievo. “Lavorare per gli americani? No grazie. A quelli di Bagram (la più grossa base Usa nel paese ndr) ho spiegato che non mi va di correre rischi con loro”. Ma i rischi, sulle strade del Sud, non si corrono coi talebani? “Coi talebani? Quando ci sono loro a controllare la strada fila tutto liscio. Il problema è quando la controlla la polizia, che vuole mazzette oppure lascia che i banditi taglieggino i carichi”. Non spiegano se coi talebani c'è un accordo o semplicemente se trasportano qualcosa per loro. Il generale della polizia annuisce. Sa anche che i commensali non stanno parlando di lui che ha la fama di essere integerrimo.
A questi signori, sia ben chiaro, i talebani non piacciano affatto. E fanno capire che voteranno per Karzai. Al momento pare ai più una scelta obbligata. I sondaggi danno all'attuale capo di stato uscente oltre il 50% dei suffragi tanto che, il decreto presidenziale con cui ha fissato le elezioni a fine aprile (in accordo col dettato costituzionale e con il parlamento, contrario a un rinvio) ha fatto gridare allo scandalo ai suoi oppositori in corsa per la sua poltrona. Di un rinvio ad agosto si era già parlato da tempo. Poi Karzai ha decretato il voto ad aprile. E subito dopo, la Commissione elettorale, col plauso di Nato, Onu e Usa, ha rimesso la data ad agosto per motivi di “sicurezza” e di “finanziamento”, le due divinità che in Afghanistan dettano legge. I candidati che sperano di scavalcare Karzai sono soddisfatti: avranno più tempo per la corsa. Ma non sembra che il presidente voglia mollare anche se ha detto di accettare il rinvio. Una battaglia istituzionale che sembra promettere lacrime e sangue con scarsa considerazione per il paese reale.
Come che vada, la situazione nel paese ai nostri commensali non piace affatto anche se nel 2001 la fine del regime dei turbanti sembò loro un'opportunità. Sembrano chiosare proprio Karzai quando respinge al mittente le critiche rivolte al suo governo “fragile e corrotto”: “I primi a essere corrotti non siamo noi, ma voi – dice uno di loro – e le ditte straniere che beccano gli appalti e subappaltano agli afgani, chiedono subito la tangente come se facesse parte del prezzo”. I controlli di Unama (la missione Onu nel paese)? “Buoni per guastare le cose: non puoi assumere nemmeno un autista se non passi attraverso loro”. Snocciolano le contraddizioni: “…parlate dei diritti delle donne. Ma lo sapete che quando gli americani fanno le perquisizioni le spogliano nude? E sapete che, siccome in certi posti vietano di costruire le madrase (scuole coraniche), i ragazzi senza lavoro vanno a studiare in quelle pachistane, pagati anche 2-300 dollari al mese. Al loro posto che fareste”? Ai tempi dei talebani, ricordano, tutto filava liscio e i prezzi erano bassi. E' un'ammissione che non fanno volentieri… E oggi? “I posti nella polizia si comprano per far soldi. Hanno una tariffa perché rendono a chi se li è acquistati”.
L'atmosfera si è scaldata. Secondo i miei commensali lo sbaglio è all'origine. E' una storia che abbiamo sentito ripetere più volte e da gente assai diversa, per censo e ideologia: “Quando siete arrivati avete fatto i patti coi signori della guerra, coi capi mujaheddin: gente odiata dal popolo anche più dei talebani. Il popolo invece lo avete abbandonato. A Kandahar avete trattato con questi banditi. A Herat – aggiunge – per lavorare al vostro Prt (Provincial reconstruction team) ci vuole la raccomandazione di Ismail Khan (ex governatore della città). Eppoi, finché continuerete ad ammazzare la gente bombardandogli le case, cosa vi aspettate? Il giorno dopo i parenti diventano nuovi talebani!”. I dati numerici – 550 vittime dei raid nel 2008 – dan loro ragione.
Il pranzo è finito e anche il giro del tè e quello delle opinioni. Ci alziamo, ringraziamo, infiliamo le scarpe. I due commensali più loquaci salgono su una macchina senza targa con due sgherri seduti sul cassone. Che mostrano sorrisi e kalashnikov: i segni del potere dei loro padroni. Il generale saluta. Il professionista ringrazia. Il cronista torna a casa. Un pranzo che vale un intero dossier di dati, sondaggi, numeri. L'aria della strada, con tutta la sua opinabile obiettività, che nessuna ricerca riesce a restituire.

Fonte: Lettera22, il Manifesto

13 marzo 2009

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