Politica estera bifronte
Paola Caridi - invisiblearabs.com
Primi segnali dell’amministrazione Obama verso il Medio Oriente: due binari paralleli. La conferma di una politica mediorientale sul doppio binario si è avuta con il “battesimo” del nuovo segretario Hillary Clinton nella regione.
Se il buon giorno si vede dal mattino, la politica statunitense in Medio Oriente sotto il “regno” di Obama rischia di essere ricordata come una politica schizofrenica. O, per usare un eufemismo, almeno articolata. I segnali si erano già intravisti, nei primi atti dell’amministrazione democratica. E soprattutto nelle nomine, nei posti chiave della nuova amministrazione di Washington, di uomini di diverse vedute sui dossier più scottanti del bacino che va dal Nord Africa all’Iran. Ma la conferma di una politica mediorientale sul doppio binario si è avuta con il “battesimo” del nuovo segretario Hillary Clinton nella regione. Dal parterre di tutto rispetto di Sharm el Sheykh, alla conferenza per la ricostruzione di Gaza, sino al primo viaggio in Israele nelle vesti di capo della diplomazia americana.
Cos’è successo? Niente di così eclatante, né di concreto. Il doppio binario della politica americana, sinora, si è sentito nelle parole pronunciate direttamente dal segretario di stato Clinton o, più spesso, nelle frasi che sono state fatte uscire dal suo entourage. E che riguardano i due dossier principali: il conflitto israelo-palestinese, e il nucleare iraniano. Sin dall’inizio del suo mandato, Barack Obama aveva subito impresso un cambio di passo alla politica mediorientale degli Stati Uniti verso il mondo arabo, il Medio Oriente, e più in generale il mondo musulmano. Prima di tutto il rispetto reciproco, aveva detto, ammettendo anche che gli americani avevano compiuto degli errori. Poi la telefonata al presidente palestinese Mahmoud Abbas, la prima fatta dalla Casa Bianca, la prima dopo la tragedia di Gaza. E quindi, subito dopo, la designazione di George Mitchell come inviato speciale del presidente per il Medio Oriente. Tutti segnali che Obama non si sarebbe autoescluso dalla gestione della politica estera, neanche in un momento così incredibilmente funesto per la tenuta economica degli Stati Uniti.
Poi, è cominciato il doppio binario. Hillary Clinton, che ha sempre avuto il sostegno della comunità ebraica americana, ha cominciato ad accentuare alcune posizioni. Per esempio sull’Iran. Posizioni talmente stridenti con le aperture iniziali dell’amministrazione Obama verso Teheran, da aver offuscato persino i risultati della conferenza su Gaza di Sharm el Sheykh. Risultati che pure sono stati definiti oltre le aspettative: quattro miliardi e mezzo di dollari promessi, contro i tre inizialmente richiesti ai donatori non solo per ricostruire la Striscia, ma per sostenere l’Autorità Nazionale Palestinese.
La questione palestinese, però, è rimasta sullo sfondo, mentre sono stati i dubbi espressi dall’entourage della Clinton a fare notizia. Dubbi sulle reali possibilità che le aperture americane sortiscano l’effetto voluto, a Teheran. E a confermare che il dipartimento di stato, ai suoi vertici, non sembra del tutto in sintonia con la Casa Bianca sono state le altre parole uscite dagli incontri che la Clinton ha avuto a Gerusalemme con tutti i politici israeliani che contano, dal presidente Shimon Peres all’attuale ministro degli esteri Tzipi Livni sino al capo del Likud (e premier incaricato) Benjamin Netanyahu. La minaccia del nucleare iraniano è ancora tutto al centro dei rapporti tra Washington e Tel Aviv, secondo la lettura di questo viaggio della Clinton nell’area.
C’è però un ma, e il “ma” è tutto nelle altre presenze americane sulle questioni aperte del Medio Oriente. Il segretario di stato, infatti, non era sola, nel suo tour. C’è con lei George Mitchell, che molto probabilmente aprirà un ufficio permanente a Gerusalemme. E prima di lei in Medio Oriente è passato John Kerry, senatore democratico e vecchio candidato alle presidenziali scorse. Kerry ha compiuto una visita inattesa a Gaza, la prima a così alto livello da quattro anni, e poi ha visto Bashar el Assad a Damasco. E a Damasco andranno presto due inviati americani: Dan Shapiro, trait d’union con l’elettorato ebraico di Obama, e – come contrappeso – Jeffrey Feltman, ex ambasciatore a Beirut. Feltman è un nome di peso nei nuovi equilibri: capo del dipartimento sul Vicino Oriente al dipartimento di stato, il diplomatico che ha fatto comprendere il cambio di passo di Obama verso la Siria alla fine di febbraio, quando ha incontrato l’ambasciatore di Assad negli USA. Tutto fa comprendere, dunque, che c’è un’altra parte della politica mediorientale di Washington che non è meno importante di quella interpretata dalla Clinton.
A confermare i segnali, ci sono le ultime nomine, considerate a chiare lettere poco gradite dagli israeliani, come scritto anche da un commento sul giornale conservatore Jerusalem Post. La prima, quella del generale James Jones. La seconda, molto più invisa, quella del nuovo capo del National Intelligence Council, Charles Chas Freeman, ex ambasciatore americano in Arabia Saudita, a guida del Middle East Policy Council. Sul caso Freeman, praticamente sconosciuto in Italia, si sta scatenando una battaglia pesantissima a Washington. Perché questi nomi, queste nomine, queste caselle riempite non sono tecnicismi, ma incidono profondamente sulla politica prossima ventura della Nuova America nel vecchio Medio Oriente. La questione tutta aperta, però, è come riuscirà quella strategia dal doppio binario a resistere alle prove, dure, che il Medio Oriente metterà di fronte al nuovo inquilino della Casa Bianca. I binari proseguiranno sempre paralleli, o a un certo punto si separeranno? Non ci sarà la possibilità di uno scontro tra visioni strategiche diverse? E chi ne uscirà vincitore?
Fonte: Lettera22, La Nuova Sardegna, blog di Paola Caridi
5 marzo 2009