Piombo fuso, nessuna giustizia per gli al Daya
NEAR EAST NEWS AGENCY
Quello della famiglia Al-Daya è uno dei 36 casi documentati nel rapporto Goldstone commissionato dall’Onu per far luce sulle violazioni occorse durante l’offensiva israeliana
Fayez Musbah Al-Daya possedeva un edificio di quattro piani nel quartiere di Zeytoun, a sudest di Gaza City. Come tanti altri a Gaza, questo edificio era la residenza di una numerosa famiglia: vi erano sette appartamenti per ciascun figlio di Fayez, i quali vi abitavano con le rispettive famiglie, eccetto due figlie non sposate.
Il 3 gennaio 2009 l’esercito israeliano, che aveva iniziato l’offensiva terrestre sulla Striscia di Gaza dopo circa 8 giorni di bombardamenti e incursioni aeree a vasta scala, raggiunse il quartiere di Zeytoun.
Alle 5,45 circa del 6 gennaio un missile sparato da un F-16 israeliano colpì e distrusse l’edificio della famiglia Al-Daya, uccidendo 22 membri della stessa su 23 presenti al momento dell’attacco, inclusi 12 bambini minori di 10 anni. Solo a seguito del ritiro delle truppe israeliane fu possibile completare le operazioni di recupero dei corpi delle vittime, rimasti sotto le macerie durante molti giorni.
L’uccisione dei 22 membri della famiglia Al-Daya è uno dei 36 incidenti documentati nel rapporto (c.d. Goldstone) commissionato dalle Nazioni Unite alcuni mesi dopo la fine delle ostilità a un gruppo di esperti indipendenti per far luce sulle violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani occorse nel contesto dell’offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza di dicembre 2008-gennaio 2009.
Il rapporto aveva affrontato solo un numero ristretto di casi, peraltro indicati come “illustrative of the main patterns of violations”, a fronte dei molteplici episodi che costarono la vita a più di 1,400 palestinesi, di cui circa l’80% vittime civili.
Le indagini sul terreno compiute dal gruppo di esperti chiarirono alcune importanti circostanze nel caso della famiglia Al-Daya. A dispetto di quanto successivamente affermato dalle autorità israeliane, i civili residenti nelle vicinanze dell’edificio colpito non ricevettero alcun avviso previo all’attacco. Inoltre, nessun altro edificio limitrofo fu attaccato nei successivi 12 giorni di guerra nonostante Israele, dichiarando di aver voluto in realtà colpire un vicino deposito di armi, abbia poi ufficialmente giustificato l’episodio come un errore “scusabile” con conseguenze non volute. E’ difficile credere, come affermato nel rapporto ONU, che se il comando israeliano effettivamente sostenesse la presenza di un deposito di armi poi non abbia proceduto a un nuovo attacco.
Forti sospetti rimangono sull’intenzionalità dell’attacco all’edificio della famiglia Al-Daya e ai suoi residenti civili. Se accertata l’intenzionalità, tale episodio potrebbe chiaramente qualificarsi come un crimine di guerra secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale e da esso derivare una chiara responsabilità penale individuale.
In ogni caso, la strage della famiglia Al-Daya evidenzia ancora una volta la sistematica violazione del diritto internazionale umanitario da parte di Israele nei territori palestinesi occupati, in particolare nella Striscia di Gaza, e la violazione degli obblighi di protezione della popolazione civile. In effetti, secondo la IV Convenzione di Ginevra del 1949, di cui Israele è parte, i civili (e altri individui “hors de combat”) sono “protected persons” in tempo di guerra e come tali devono essere riconosciuti e tutelati dalle forze combattenti.
Inoltre, il I Protocollo Addizionale del 1977, considerato diritto internazionale umanitario consuetudinario al cui rispetto Israele è dunque tenuto sebbene non lo abbia ratificato, codifica i principi di distinzione tra civili e obiettivi militari, di proporzionalità e precauzione nell’attacco, e la limitazione nell’uso di determinate armi. Tali precetti vincolanti hanno la funzione di eliminare, o almeno ridurre, pericoli e danni, tanto fisici come materiali, alle persone civili.
Israele è dunque pienamente responsabile per non aver ottemperato a tali “obblighi di diligenza” nel caso dell’attacco all’edificio della famiglia Al-Daya. Come affermato dal gruppo di esperti ONU, che inter alia aveva anche stigmatizzato l’assenza di indagini celeri, indipendenti e imparziali da parte di Israele, l’attacco è stato sicuramente un atto deliberato, sebbene sulle conseguenze dello stesso permangono dei dubbi circa la specifica intenzionalità. Quest’ultima peraltro non è richiesta al fine della responsabilità civile (per i danni provocati), per cui il gruppo di esperti aveva chiaramente imputato la medesima a Israele.
Ebbene a distanza di più di tre anni non è stata ancora fatta giustizia per le 22 vittime civili della famiglia Al-Daya, una conclusione ormai già scritta in molti altri casi relativi alle vittime civili dell’operazione militare israeliana Piombo Fuso sulla Striscia di Gaza.
Come informa il Palestinian Centre for Human Rights di Gaza, legale rappresentante della famiglia Al-Daya, il 5 settembre (ma la notizia è stata comunicata al Centro solo 5 giorni dopo), i giudici israeliani della corte centrale di Nazareth hanno sostenuto che le 22 vittime della famiglia Al-Daya sono “casualty not intended”, periti nel corso di una operazione militare, e che Israele non ha dunque alcuna responsabilità.
Il ricorso, presentato in agosto del 2010 dopo che tanto una domanda civile come una penale sottoposte nei primi mesi del 2009 non avevano trovato riscontro alcuno dalle competenti autorità israeliane, è stato così respinto. Ancora una volta le vittime civili di Gaza non conoscono giustizia nei tribunali israeliani, ormai da tempo impegnati a legittimare le politiche criminali dei governi di Tel Aviv.
articolo di davide Tundo – dottorando in Diritti Umani, Giustizia Internazionale e Democrazia dell’Università di Valencia (Spagna) e collaboratore del Palestinian Centre for Human Rights di Gaza (PCHR-Gaza).
Fonte: nenanews
13 settembre 2012